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martedì 24 marzo 2009

Non può essere questo stato l'antidoto alla crisi

di Milton
19 Marzo 2009

Di stato in Italia ce n’è fin troppo e continua ad affamarci per pagare le sue rendite e le sue clientele. E’ la presenza dello stato che non ci ha fatto crescere economicamente, che ci rende schiavi della burocrazia, che non ci lascia liberi di intraprendere.


Le recenti polemiche sul ruolo di controllo dei prefetti nelle dinamiche delle politiche di credito delle banche e, più in generale, gli scambi di sciabolate tra insigni editorialisti sul ruolo delle stato (il lettore capirà in seguito, perché la s è rigorosamente minuscola) rispetto alla crisi finanziaria in atto, stanno avendo la perniciosa capacità, soprattutto nel nostro Paese, di diluire la già debole e minoritaria cultura delle riforme di libertà, di cui il nostro futuro avrebbe tanto bisogno.

Si sta infatti facendo strada, soprattutto in quelli che si definiscono ancora liberali ma di fatto non lo sono mai stati, un atteggiamento che porta a santificare la cosidetta economia sociale di mercato, come antidoto miracoloso alla crisi in atto.

Il problema però è che l’economia sociale di mercato, per come la si è intesa e la si intende in Italia, non è il cosidetto modello renano che ha sì alimentato per anni la locomotiva tedesca, ma ha anche gettato la Germania in una crisi economica e produttiva ben antecedente alla crisi globale attuale. Per i nostri liberali a geometria variabile con elementi di colbertismo, socialismo proudoniano e, perché no, di comunitarismo, l’economia sociale di mercato è un modo à la page per dire che lo stato deve tornare ad occuparsi di economia, perché il mercato, cattivo e selvaggio, non è per sua natura capace di autoregolarsi. Ed ancora sotengono che i fenomeni della globalizzazione hanno via via scemato la forza dello Stato, per condurci sempre più verso una selvaggia anarchia mercatista, dove manager senza scrupoli con bonus miliardari azzannano e concupiscono ogni giorno moltitudini di inetti, ignari dei rischi che stanno correndo.

Non voglio addentrarmi nell’analisi del grado di demagogia che accompagna la maggioranza degli analisti e dei politici in questo periodo di crisi, voglio solo approfondire quanto sia debole ed indefesa la presenza dello stato in questo nostro sgangherato Paese.

Lo stato in Italia è così debole che ogni anno spende più della metà di quanto gli italiani producono e costringe gli stessi a lavorare esclusivamente per lui, per quasi i due terzi dell’intero orario di lavoro. E’ uno stato così debole che costa al cittadino italiano 4.500 euro all’anno, quasi il doppio della media europea, costo al quale ovviamente non corrisponde il relativo servizio: per una TAC servono semestri, per la sicurezza servono le ronde, per costrire una casa serve l’amicizia del geometra comunale, per smaltire i rifiuti servono i militari.

La verità è che di stato in Italia ce n’è fin troppo e continua ad affamarci per pagare le sue rendite e le sue clientele. E’ la presenza dello stato che non ci ha fatto crescere economicamente, che ci rende schiavi della burocrazia, che non ci lascia liberi di intraprendere. E’ la presenza dello stato che ha bloccato da anni l’ascensore sociale, umiliando il merito a favore dell’egualitarismo parassitario.

Chi sfrutta la crisi in atto per rinverdire il ruolo dello stato e della politica nell’economia e nella vita delle persone, si prende una grande responsabilità nei confronti delle generazioni future, alle quali verrebbe consegnato un paese immobile, strutturalmente inadatto a crescere, dove continueranno i vincere i furbi e i soliti noti parassiti dello stato. Cos’altro serve per essere definiti “cattivi maestri”?

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