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mercoledì 20 maggio 2009

Il protezionismo non protegge niente, semmai procura danni

di Piercamillo Falasca
18 Maggio 2009

Quando i governi chiudono i mercati interni imponendo dazi sull’importazione o inventandosi barriere di altra natura, il danno è enorme: per i consumatori finali, si rendono più costosi i beni importati (i più poveri dovranno rinunciare ad acquistarli); per le imprese che importano semilavorati, questo rappresenta un aumento dei costi di produzione.

Se c’è una regola in economia in cui credere fermamente, è quella secondo cui nelle fasi recessive aumenta la domanda di protezionismo.
La “paura del prodotto straniero” striscia costantemente nella società, crisi o non crisi, ed è una variante della paura dello straniero. Ma è durante i periodi di difficoltà economica, quando sono a rischio i posti di lavoro e la sopravvivenza stessa di aziende e interi comparti industriali, che la paura si esaspera ed alimenta la caccia agli untori, attività in cui la politica solitamente eccelle. Ben sapendo – perché ormai è un dato acquisito, incontrovertibile, non confutabile – che il protezionismo non protegge assolutamente nulla.
Quando i governi chiudono i mercati interni imponendo dazi sull’importazione o inventandosi barriere di altra natura, il danno è enorme: per i consumatori finali, si rendono più costosi i beni importati (i più poveri dovranno rinunciare ad acquistarli); per le imprese che importano semilavorati, questo rappresenta un aumento dei costi di produzione. Più in generale, inibendo la pressione competitiva internazionale, il protezionismo contribuisce a far calare l’efficienza, la creatività e l’innovazione di un sistema economico, lasciando in vita aziende e comparti ormai decotti e “bloccando” risorse che andrebbero invece orientate verso impieghi più produttivi.
Insomma, si toglie la libertà agli individui di scegliere tra il burro italiano e quello neozelandese, ma soprattutto si distorce l’evoluzione del sistema produttivo: sarà un caso che le grandi dittature del secolo scorso sono state, anzitutto, protezioniste?
In giro per il mondo, e soprattutto negli Stati Uniti obamiani scossi dalla crisi economica, cresce la domanda di protezionismo, ma soprattutto aumenta la tentazione della politica di assecondarne il sentimento. Anche se questo, come sempre è accaduto, dovesse provocare una guerra commerciale, perché a protezionismo i governi solgono rispondere con protezionismo.
Pochi credono ad un ritorno ai dazi punitivi della Grande Depressione, ma in tanti temono che possa avvenire su scala globale ciò che una decina di anni fa è accaduto durante la crisi del sud-est asiatico, quando alcuni paesi dell’area risposero alla recessione con misure protettive e i paesi più avanzati reagirono inasprendo le norme anti-dumping. Questa volta potrebbe essere anche peggio: India e Russia hanno già alzato alcune barriere regolatorie, il numero di contenziosi anti-dumping cresce costantemente, in giro per gli Stati Uniti amministrazioni statali e locali chiedono a fornitori canadesi di sottoscrivere l’impegno ad utilizzare solo materiale made in USA. E, come dicevamo poc’anzi, le reazioni non tardano ad arrivare: in teoria dei giochi si parla di “tit for tat”, colpetto per colpetto.
La Banca Mondiale ha recentemente evidenziato che 17 dei 20 membri del G-20 hanno adottato misure restrittive sul commercio, nonostante i proclami di difesa del libero scambio lanciati duranti gli incontri ufficiali del gruppo. Più che di dazi, in particolare, il nuovo protezionismo pare vivere di regulation: standard sanitari e di sicurezza, barriere tecniche, licenze, requisiti di ogni genere. E poi, aiuti di Stato condizionati al rispetto della “nazionalità”. Interventismo chiama protezionismo e viceversa.
Il principio del “buy American” porta il protezionismo nel cuore del mondo libero. Per salvare o creare qualche migliaio di posti di lavoro, gli Stati Uniti innescano la miccia di una guerra commerciale estremamente pericolosa e stupida proprio dal punto di vista occupazionale: come hanno calcolato gli analisti del Peterson Institute for International Economics, per ogni punto percentuale in meno di esportazioni, gli Stati Uniti rischiano 6500 posti di lavoro. Dal cuore del grande impero dell’integrazione, dell’apertura e della libertà di scelta, rischia di arrivare un segnale cupo di miope irresponsabilità degno della peggiore Europa ante-guerra. E in pochi mesi, si rischia di vanificare uno straordinario processo pluridecennale di sempre maggiore apertura e condivisione del benessere.
Proprio ora che avremmo bisogno dell’abbattimento delle barriere e di un ciclo di liberalizzazione economica per incoraggiare la ripresa economica e l’uscita dalla crisi.
Il protezionismo, dicevamo, è una costante dei regimi autoritari. Oggi in Occidente non c’è fascismo, nazismo o comunismo, ma c’è un “ismo” spettrale altrettanto letale che si aggira per il mondo: il populismo.

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