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giovedì 26 marzo 2009
mercoledì 25 marzo 2009
Nessun decreto per il piano casa. Si accelera sulle abitazioni low-cost
di Pietro Moroni
Nessun dietrofront: il piano casa serve per rimettere in pista la locomotiva edilizia e si farà, ma non venerdì per decreto. Dopo il faccia a faccia tra Governo e Regioni, l’Esecutivo ha deciso di far ripartire il confronto nei prossimi giorni con l’obiettivo di trovare un’intesa entro martedì, poi sarà convocata una nuova conferenza Stato-Regioni.
Il piano casa potrebbe quindi incontrare la strada del disegno di legge (anziché del decreto). Alla base della decisione del premier Silvio Berlusconi ci sarebbero sia i dubbi del Quirinale sia la posizione ferma delle Regioni, da cui è comunque emersa una linea comune: si può lavorare per trovare una soluzione. A pesare, anche il pressing del ministro per le Riforme Umberto Bossi che oggi aveva ribadito l'importanza di trattare prima di varare un decreto. "Ieri sera l’ho detto a Berlusconi che molte Regioni, ad esempio la Lombardia, hanno già il loro piano casa. Meglio trattare con loro e trovare l’accordo, così si evitano scontri", aveva detto il leader della Lega nel pomeriggio parlando con i giornalisti alla Camera.
Far ripartire l’edilizia equivale a dare una spinta all’economia in un periodo di ciclo negativo ed è per questo che il Governo non può (e del resto non intende) fare marcia indietro. Il provvedimento sulla casa, ha ricordato Berlusconi, riguarda "quasi il 50% delle abitazioni, che sono monofamiliari o bifamiliari. Dalle ultime notizie che abbiamo sono il 25-28% delle monofamiliari e il 13-15% le bifamiliari. Quindi il provvedimento - ha aggiunto il premier - riguarderà quasi il 50% delle famiglie italiane e non le ville come ho letto stamattina".
Non solo: nel corso del vertice con le Regioni il Cavaliere avrebbe parlato anche della possibilità di realizzare delle “new town” attorno ai grandi centri abitati: nuovi quartieri residenziali in edilizia economica popolare destinati a far fronte al problema abitativo per giovani coppie e famiglie con redditi non elevati. Si tratterebbe del piano da 550 milioni di euro varato in accordo con le Regioni lo scorso 6 marzo. Il progetto sulle abitazioni low cost di edilizia pubblica, che offre un terreno d'intesa con le Regioni in vista del tavolo tecnico-politico deciso oggi, vedrebbe ora un'accelerazione da parte del governo, per approdare al più presto all'esame del Cipe. “Un grande piano per la costruzione di nuove abitazioni per le giovani coppie e le famiglie in difficoltà”, lo ha definito il premier. Le misure sull'edilizia privata, ha puntualizzato, “non sono il piano casa, ma riguardano un settore in particolare. E invece noi siamo consapevoli dell'esigenza di tante famiglie e di tanti giovani che si sposano e che non sono in grado di avere una casa. Come abbiamo promesso in campagna elettorale, d'accordo con le Regioni, noi abbiamo immaginato un progetto per la costruzione di abitazioni in tutti i capoluoghi di provincia”. Sul progetto, ha continuato Berlusconi, “verranno mobilitate le Regioni, i Comuni, il sistema bancario italiano e tutte le industrie delle costruzioni”.
E archiviato il dl, anche il Pd apre alla trattativa. Il segretario Dario Franceschini ha dichiarato la disponibilità del suo partito a discutere il nuovo piano casa. "Il Pd è pronto ad un confronto a patto che ci siano sufficienti garanzie a tutela del paesaggio, a condizione che siano norme che non facciano correre il rischio di una devastazione del paesaggio. Su questo saremo intransigenti", ha detto il segretario prima di lanciare la solita freccia avvelenata all’indirizzo del Premier: "È evidente – ha aggiunto - che non si può governare con gli slogan. È stato ritirato il decreto-cementificazione che avrebbe creato danni spaventosi, adesso si vuole fare un piano casa d’intesa con le Regioni, i Comuni, che rilanci l’edilizia e risolva la questione abitativa...".
Immancabile, l’attacco dell’Italia dei Valori. “Berlusconi ancora una volta ha preso in giro gli italiani - ha detto il capogruppo alla Camera dell’Italia dei Valori, Massimo Donadi - Il tanto sbandierato piano casa in realtà dà solo la possibilità ai ricchi di ampliare ville e villette in campagna. Un’altra dimostrazione che il governo fa spot e cerca di affrontare la crisi economica solo con la politica degli annunci". Peccato che nel giro di pochi giorni, insieme con la corsa al piano casa, l’Esecutivo abbia teso la mano alle Pmi, tagliato il nastro dell’alta velocità con il Frecciarossa, e stia procedendo all’inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra.
www.loccidentale.it
Nessun dietrofront: il piano casa serve per rimettere in pista la locomotiva edilizia e si farà, ma non venerdì per decreto. Dopo il faccia a faccia tra Governo e Regioni, l’Esecutivo ha deciso di far ripartire il confronto nei prossimi giorni con l’obiettivo di trovare un’intesa entro martedì, poi sarà convocata una nuova conferenza Stato-Regioni.
Il piano casa potrebbe quindi incontrare la strada del disegno di legge (anziché del decreto). Alla base della decisione del premier Silvio Berlusconi ci sarebbero sia i dubbi del Quirinale sia la posizione ferma delle Regioni, da cui è comunque emersa una linea comune: si può lavorare per trovare una soluzione. A pesare, anche il pressing del ministro per le Riforme Umberto Bossi che oggi aveva ribadito l'importanza di trattare prima di varare un decreto. "Ieri sera l’ho detto a Berlusconi che molte Regioni, ad esempio la Lombardia, hanno già il loro piano casa. Meglio trattare con loro e trovare l’accordo, così si evitano scontri", aveva detto il leader della Lega nel pomeriggio parlando con i giornalisti alla Camera.
Far ripartire l’edilizia equivale a dare una spinta all’economia in un periodo di ciclo negativo ed è per questo che il Governo non può (e del resto non intende) fare marcia indietro. Il provvedimento sulla casa, ha ricordato Berlusconi, riguarda "quasi il 50% delle abitazioni, che sono monofamiliari o bifamiliari. Dalle ultime notizie che abbiamo sono il 25-28% delle monofamiliari e il 13-15% le bifamiliari. Quindi il provvedimento - ha aggiunto il premier - riguarderà quasi il 50% delle famiglie italiane e non le ville come ho letto stamattina".
Non solo: nel corso del vertice con le Regioni il Cavaliere avrebbe parlato anche della possibilità di realizzare delle “new town” attorno ai grandi centri abitati: nuovi quartieri residenziali in edilizia economica popolare destinati a far fronte al problema abitativo per giovani coppie e famiglie con redditi non elevati. Si tratterebbe del piano da 550 milioni di euro varato in accordo con le Regioni lo scorso 6 marzo. Il progetto sulle abitazioni low cost di edilizia pubblica, che offre un terreno d'intesa con le Regioni in vista del tavolo tecnico-politico deciso oggi, vedrebbe ora un'accelerazione da parte del governo, per approdare al più presto all'esame del Cipe. “Un grande piano per la costruzione di nuove abitazioni per le giovani coppie e le famiglie in difficoltà”, lo ha definito il premier. Le misure sull'edilizia privata, ha puntualizzato, “non sono il piano casa, ma riguardano un settore in particolare. E invece noi siamo consapevoli dell'esigenza di tante famiglie e di tanti giovani che si sposano e che non sono in grado di avere una casa. Come abbiamo promesso in campagna elettorale, d'accordo con le Regioni, noi abbiamo immaginato un progetto per la costruzione di abitazioni in tutti i capoluoghi di provincia”. Sul progetto, ha continuato Berlusconi, “verranno mobilitate le Regioni, i Comuni, il sistema bancario italiano e tutte le industrie delle costruzioni”.
E archiviato il dl, anche il Pd apre alla trattativa. Il segretario Dario Franceschini ha dichiarato la disponibilità del suo partito a discutere il nuovo piano casa. "Il Pd è pronto ad un confronto a patto che ci siano sufficienti garanzie a tutela del paesaggio, a condizione che siano norme che non facciano correre il rischio di una devastazione del paesaggio. Su questo saremo intransigenti", ha detto il segretario prima di lanciare la solita freccia avvelenata all’indirizzo del Premier: "È evidente – ha aggiunto - che non si può governare con gli slogan. È stato ritirato il decreto-cementificazione che avrebbe creato danni spaventosi, adesso si vuole fare un piano casa d’intesa con le Regioni, i Comuni, che rilanci l’edilizia e risolva la questione abitativa...".
Immancabile, l’attacco dell’Italia dei Valori. “Berlusconi ancora una volta ha preso in giro gli italiani - ha detto il capogruppo alla Camera dell’Italia dei Valori, Massimo Donadi - Il tanto sbandierato piano casa in realtà dà solo la possibilità ai ricchi di ampliare ville e villette in campagna. Un’altra dimostrazione che il governo fa spot e cerca di affrontare la crisi economica solo con la politica degli annunci". Peccato che nel giro di pochi giorni, insieme con la corsa al piano casa, l’Esecutivo abbia teso la mano alle Pmi, tagliato il nastro dell’alta velocità con il Frecciarossa, e stia procedendo all’inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra.
www.loccidentale.it
martedì 24 marzo 2009
E' la classe media la vera vittima della crisi, ma non solo in Occidente
di Giuseppe Pennisi
23 Febbraio 2009
Ogni crisi ha le sue vittime. Della crisi finanziaria ed economica in corso dalla metà del 2007 la prima vittima apparente, in ordine temporale, è stato il variegato mondo di banchieri (ai piani più alti) e di promotori finanziari (a quelli più bassi) colpiti dall’esplosione della “bolla” subprime. Quasi tutti, in un primo momento, hanno perso i premi di produzione. Molti, in un secondo, hanno perso anche il posto.
In parallelo, crescevano, soprattutto negli Stati Uniti, altre vittime, per così dire, “immediate” della crisi: coloro che si erano illusi di comprare case (i cui valori sarebbero cresciuti senza cessa) grazie a facilitazioni finanziarie che si sono rivelate veri e propri bidoni; l’ascesa delle valorizzazioni dell’immobiliare si è, dapprima, fermata e, poi, trasformata in una rapida discesa, con molte case nuove di zecca che finivano all’asta pubblica.
Successivamente, le vittime della crisi sono parse essere le banche, finite in un gioco più grande di loro: dopo avere creato una vasta gamma di strumenti (mirati a eludere regolazione e, soprattutto, vigilanza) si sono trovate come l’apprendista stregone di Paul Dukas. A forza di tentare di essere più furbi del vicino, costrette a non fidarsi le une della altre ed a non avere alcuna certezza sulla consistenza dei loro portafogli, delle loro attività finanziarie ed anche dei loro stessi stock di capitale.
Adesso un dotto paper di Martin Ravallion della Banca Mondiale (World Bank Policy Research Working Paper N. 4816 , disponibile sul sito dell’istituto oppure richiedendolo a mravallion@worldbank.org) pone l’accento sul fatto che la vera vittima di questa crisi è quella che possiamo definire la classe media dei Paesi in via di sviluppo.
Il lavoro statistico di Ravallion definisce “classe media occidentale” dei Paesi emergenti coloro che non sarebbero classificati “poveri” se si seguissero gli standard degli Stati Uniti (in termini di reddito e quel che più conta livello e tipologia di consumi). Sempre secondo i calcoli di Ravallion (ampiamente utilizzati, ma con una certa disinvoltura, in un lungo servizio del settimanale britannico “The Economist”), nel 1990-2002, 80 milioni di uomini e donne dei Paesi in via di sviluppo sono entrati a fare parte della “classe media (di tipo) occidentale”; un altro 1,2 miliardi di persone tuttavia (quattro quinti in Asia e metà in Cina) sono usciti dalla povertà estrema e diventati elementi della “classe media del Terzo Mondo” che vivono in standard in Europa e negli Usa considerati molto bassi ma che riescono, per la prima volta in millenni, a mettere insieme il pranzo con la cena. Sono un gruppo – dice Ravallion – molto “vulnerabile” dato che una persona su 6 nei Paesi in via di sviluppo sopravvive con un reddito tra 2 e 3 dollari Usa al giorno. Al più piccolo fruscio, rischiano di tornare alla povertà estrema.
E’ questa nuova “classe media”, tra l’altro, che è stata il motore dell’export e degli investimenti dall’Europa e dagli Usa verso lande lontane, specialmente, in Oriente (sino a due decenni fa del tutto ignote alle piccole e medie imprese del Vecchio Continente e del Nord America). Secondo Daron Acemoglu del Massachussetts Institute of Technology, la retrocessione di coloro che hanno pensato di essere la nuova “classe media” mette a repentaglio il progresso verso regimi democratici, anche se tentennante, avvertitosi in questi ultimi anni in alcune regioni (dell’Asia ma non solo). Si sa molto poco ad esempio delle tensioni socio-politiche innescate in Cina dalla chiusura (negli ultimi sei mesi) di 20 milioni di posti di lavoro nell’industria manifatturiera e (secondo le notizie che appaiono sulla stampa internazionale) costretti a migrare verso campagne lasciate dai loro padri (ove non dai loro nonni) – dove non c’è occupazione produttiva per chi ha fatto il metallurgico od il chimico anche in quanto la rivoluzione tecnologica ha comportato un aumento delle rese agricole.
E’ un problema unicamente dei Paesi in via di sviluppo e della loro nuova “classe media”? Non ci sono – che io sappia – analisi analoghe a quelle di Ravallion per i Paesi Ocse; ne comparirà probabilmente una nel prossimo “Employment Outlook”, che verrà diramato in giugno. Tuttavia, l’aumento della disoccupazione colpisce principalmente la “classe media” dei Paesi ad alto reddito medio. Nella Penisola, relazioni della Banca d’Italia calcolano in a 2,4 milioni i lavoratori particolarmente “a rischio” in quanto con confratti a termine (di vario tipo e natura) in una fase di domanda calante di beni e servizi e, quindi, di contrazione della produzione e dell’impiego.
Acemoglu (lo abbiamo visto) vede nella retrocessione della “classe media” dei Paesi in via di sviluppo una minaccia nel cammino verso la democrazia. Una minaccia analoga nei Paesi Ocse – tanto più che, come sappiamo, la Grande Depressione degli Anni Trenta sfociò, in alcuni Paesi, in totalitarismi. Lascio la risposta ai politologi. Credo, però, che nel mondo occidentale ormai le tradizioni democratiche hanno radici profonde e non saranno messe in pericolo (soprattutto se sapremo ristrutturare i nostri sistemi di welfare). Più complesso formulare ipotesi per i Paesi dell’Europa centrale ed orientale (tra cui alcuni ora appartenenti all’Ue) in transizione dal piano al mercato ed il cui percorso da regimi comunisti alla democrazia non è ancora compiuto, oppure è stato terminato solo di recente.
23 Febbraio 2009
Ogni crisi ha le sue vittime. Della crisi finanziaria ed economica in corso dalla metà del 2007 la prima vittima apparente, in ordine temporale, è stato il variegato mondo di banchieri (ai piani più alti) e di promotori finanziari (a quelli più bassi) colpiti dall’esplosione della “bolla” subprime. Quasi tutti, in un primo momento, hanno perso i premi di produzione. Molti, in un secondo, hanno perso anche il posto.
In parallelo, crescevano, soprattutto negli Stati Uniti, altre vittime, per così dire, “immediate” della crisi: coloro che si erano illusi di comprare case (i cui valori sarebbero cresciuti senza cessa) grazie a facilitazioni finanziarie che si sono rivelate veri e propri bidoni; l’ascesa delle valorizzazioni dell’immobiliare si è, dapprima, fermata e, poi, trasformata in una rapida discesa, con molte case nuove di zecca che finivano all’asta pubblica.
Successivamente, le vittime della crisi sono parse essere le banche, finite in un gioco più grande di loro: dopo avere creato una vasta gamma di strumenti (mirati a eludere regolazione e, soprattutto, vigilanza) si sono trovate come l’apprendista stregone di Paul Dukas. A forza di tentare di essere più furbi del vicino, costrette a non fidarsi le une della altre ed a non avere alcuna certezza sulla consistenza dei loro portafogli, delle loro attività finanziarie ed anche dei loro stessi stock di capitale.
Adesso un dotto paper di Martin Ravallion della Banca Mondiale (World Bank Policy Research Working Paper N. 4816 , disponibile sul sito dell’istituto oppure richiedendolo a mravallion@worldbank.org) pone l’accento sul fatto che la vera vittima di questa crisi è quella che possiamo definire la classe media dei Paesi in via di sviluppo.
Il lavoro statistico di Ravallion definisce “classe media occidentale” dei Paesi emergenti coloro che non sarebbero classificati “poveri” se si seguissero gli standard degli Stati Uniti (in termini di reddito e quel che più conta livello e tipologia di consumi). Sempre secondo i calcoli di Ravallion (ampiamente utilizzati, ma con una certa disinvoltura, in un lungo servizio del settimanale britannico “The Economist”), nel 1990-2002, 80 milioni di uomini e donne dei Paesi in via di sviluppo sono entrati a fare parte della “classe media (di tipo) occidentale”; un altro 1,2 miliardi di persone tuttavia (quattro quinti in Asia e metà in Cina) sono usciti dalla povertà estrema e diventati elementi della “classe media del Terzo Mondo” che vivono in standard in Europa e negli Usa considerati molto bassi ma che riescono, per la prima volta in millenni, a mettere insieme il pranzo con la cena. Sono un gruppo – dice Ravallion – molto “vulnerabile” dato che una persona su 6 nei Paesi in via di sviluppo sopravvive con un reddito tra 2 e 3 dollari Usa al giorno. Al più piccolo fruscio, rischiano di tornare alla povertà estrema.
E’ questa nuova “classe media”, tra l’altro, che è stata il motore dell’export e degli investimenti dall’Europa e dagli Usa verso lande lontane, specialmente, in Oriente (sino a due decenni fa del tutto ignote alle piccole e medie imprese del Vecchio Continente e del Nord America). Secondo Daron Acemoglu del Massachussetts Institute of Technology, la retrocessione di coloro che hanno pensato di essere la nuova “classe media” mette a repentaglio il progresso verso regimi democratici, anche se tentennante, avvertitosi in questi ultimi anni in alcune regioni (dell’Asia ma non solo). Si sa molto poco ad esempio delle tensioni socio-politiche innescate in Cina dalla chiusura (negli ultimi sei mesi) di 20 milioni di posti di lavoro nell’industria manifatturiera e (secondo le notizie che appaiono sulla stampa internazionale) costretti a migrare verso campagne lasciate dai loro padri (ove non dai loro nonni) – dove non c’è occupazione produttiva per chi ha fatto il metallurgico od il chimico anche in quanto la rivoluzione tecnologica ha comportato un aumento delle rese agricole.
E’ un problema unicamente dei Paesi in via di sviluppo e della loro nuova “classe media”? Non ci sono – che io sappia – analisi analoghe a quelle di Ravallion per i Paesi Ocse; ne comparirà probabilmente una nel prossimo “Employment Outlook”, che verrà diramato in giugno. Tuttavia, l’aumento della disoccupazione colpisce principalmente la “classe media” dei Paesi ad alto reddito medio. Nella Penisola, relazioni della Banca d’Italia calcolano in a 2,4 milioni i lavoratori particolarmente “a rischio” in quanto con confratti a termine (di vario tipo e natura) in una fase di domanda calante di beni e servizi e, quindi, di contrazione della produzione e dell’impiego.
Acemoglu (lo abbiamo visto) vede nella retrocessione della “classe media” dei Paesi in via di sviluppo una minaccia nel cammino verso la democrazia. Una minaccia analoga nei Paesi Ocse – tanto più che, come sappiamo, la Grande Depressione degli Anni Trenta sfociò, in alcuni Paesi, in totalitarismi. Lascio la risposta ai politologi. Credo, però, che nel mondo occidentale ormai le tradizioni democratiche hanno radici profonde e non saranno messe in pericolo (soprattutto se sapremo ristrutturare i nostri sistemi di welfare). Più complesso formulare ipotesi per i Paesi dell’Europa centrale ed orientale (tra cui alcuni ora appartenenti all’Ue) in transizione dal piano al mercato ed il cui percorso da regimi comunisti alla democrazia non è ancora compiuto, oppure è stato terminato solo di recente.
La crisi finanziaria minaccia l'Ue
di Giuseppe Pennisi
27 Febbraio 2009
Quando, domenica primo marzo 2009, i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea (Ue) si incontreranno a colazione nel piuttosto anonimo palazzone Justus Lipsius (un filologo ed umanista fiammingo del XVI secolo) per una seduta straordinaria del Consiglio Europeo, il loro obiettivo sarà quello di tentare di forgiare una posizione comune prima di presentarsi al resto del mondo alla riunione del G20 in programma il 2 aprile a Londra.
I “quattro grandi” dell’Ue (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia) hanno svolto il loro compitino preparatorio con una colazione di lavoro la domenica precedente a Londra: ne è uscito un invito forte a chiaro a favore di una nuova regolazione internazionale - di cui sarebbe elemento servente una riforma del Fondo monetario, Banca mondiale, Financial Stability Forum ed un’altra mezza dozzina di organizzazioni internazionali. La posizione dei “quattro” è, senza alcun dubbio, utile poiché traccia una prospettiva ed indica una direttiva per i 27 – prospettiva e direttiva molto più chiare e molto più lineari da quelle che si deducono dal “Messaggio sullo Stato dell’Unione” presentato all’inizio della settimana dal Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al Congresso. Data la sua posizione nella comunità internazione, l’Ue ha senza dubbio un dovere, prima ancora che un titolo, a presentare i lineamenti di un percorso per uscire dalla crisi. Specialmente se, in materia, gli Usa obamiani sono contradditori, e guardano più ai loro problemi interni che al resto del mondo.
La colazione di lavoro dovrebbe servire ai Capi di Stato e di Governo per riflettere su un tema poco dibattuto: la crisi finanziaria sta minacciando l’Ue in quanto Unione oltre che i singoli Stati, alcuni settori (quello dei servizi finanziari in primo luogo, ma anche il manifatturiero), l’economia reale in senso lato e l’occupazione.
La crisi è una mina per le istituzioni dell’Unione. Proprio mentre i “grandi” a Berlino delineavano una strategia di regolazione “mondialistica” (e si mostravano contrari a nazionalizzazioni bancarie, ed a “bad banks” sia nazionali sia multilaterali) dai cassetti della Commissione Europea bozze di direttive che invece prevedevano proprio nazionalizzazioni bancarie e “bad banks”.
La Gran Bretagna, a Berlino, si è mostrata unita agli altri “grandi”; a Londra, a Washington ed a Bruxelles, invece, sfoggia (ed a volte ostenta) posizioni “atlantiche” in tema di nazionalizzazioni e “bad banks”. Quindi, in seno al Consiglio Europeo neanche i quattro “grandi” sono uniti; e c’è chi fa due parti in commedia. Inoltre, all’Ecofin nessuno ha ripreso in mano il dossier dal “rapporto Lanfalussy” del dicembre 2007, che contiene suggerimenti operativi concreti per rimettere ordine nel groviglio di regolazione e vigilanza in materia di servizi finanziari tra i 27 Stati Ue; un percorso verso un riordino (se non è fattibile effettuare almeno i primi passi del riordino) è indispensabile per mostrare che l’Ue è in grado di parlare con una sola voce (o almeno all’unisono) al G20 oppure in altre sedi dove si tenta di tamponare e, se possibile, curare la crisi. Ove ciò non bastasse, l’architettura tratteggiata dai quattro “grandi” e la riforma di Fondo monetario, Banca mondiale e via discorrendo non sfiora il nodo che da dieci anni blocca analoghi piani di riassetto: in tali sedi, l’Ue avrà un seggio a titolo di Unione? Oppure Francia, Germania e Gran Bretagna conserveranno, in perpetuità, i loro seggi permanenti (da cui spesso emergono posizioni differenti) e l’Unione sarà una sorta di “fantasma dell’opera”? E l’Italia dovrà accontentarsi di uno strapuntino a mezzadria con Polonia, Grecia, Cipro, Malta e via discorrendo?
In aggiunta, ci sono una varietà di problemi immediati che riguardano i Paesi neocomunitari, alcuni indebitatisi sino al collo con titoli spazzatura nell’euforia di correre dal piano al mercato. Alcuni (Ungheria) pensano di risolverli con un ingresso accelerato nell’unione monetaria: l’euro farebbe da corazza socializzando il debito con gli altri membri del club (ma questi ultimi sono d’accordo?). Altri (Lettonia) progettano di dichiarare fallimento (come l’Islanda) - una mossa che, bene o male, inficerebbe la credibilità dell’Unione tutta. Dato che la crisi (sia finanziaria sia economica) morde soprattutto in Europa centrale ed orientale, si sono caricate la Banca europea per gli investimenti (Bei) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) con una marea di compiti nuovi (che non paiono fare parte di un programma organico e senza che Bei e Bers abbiano le risorse, soprattutto, in personale per svolgerli); Bei e Bers rischiano di finanziare operazioni avventati con danni collaterali al loro prestigio che minacciano di durare a lungo.
Un invito ai convitati: tra un “homard” ed una “crème patissère” riflettete su questi temi.
27 Febbraio 2009
Quando, domenica primo marzo 2009, i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea (Ue) si incontreranno a colazione nel piuttosto anonimo palazzone Justus Lipsius (un filologo ed umanista fiammingo del XVI secolo) per una seduta straordinaria del Consiglio Europeo, il loro obiettivo sarà quello di tentare di forgiare una posizione comune prima di presentarsi al resto del mondo alla riunione del G20 in programma il 2 aprile a Londra.
I “quattro grandi” dell’Ue (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia) hanno svolto il loro compitino preparatorio con una colazione di lavoro la domenica precedente a Londra: ne è uscito un invito forte a chiaro a favore di una nuova regolazione internazionale - di cui sarebbe elemento servente una riforma del Fondo monetario, Banca mondiale, Financial Stability Forum ed un’altra mezza dozzina di organizzazioni internazionali. La posizione dei “quattro” è, senza alcun dubbio, utile poiché traccia una prospettiva ed indica una direttiva per i 27 – prospettiva e direttiva molto più chiare e molto più lineari da quelle che si deducono dal “Messaggio sullo Stato dell’Unione” presentato all’inizio della settimana dal Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al Congresso. Data la sua posizione nella comunità internazione, l’Ue ha senza dubbio un dovere, prima ancora che un titolo, a presentare i lineamenti di un percorso per uscire dalla crisi. Specialmente se, in materia, gli Usa obamiani sono contradditori, e guardano più ai loro problemi interni che al resto del mondo.
La colazione di lavoro dovrebbe servire ai Capi di Stato e di Governo per riflettere su un tema poco dibattuto: la crisi finanziaria sta minacciando l’Ue in quanto Unione oltre che i singoli Stati, alcuni settori (quello dei servizi finanziari in primo luogo, ma anche il manifatturiero), l’economia reale in senso lato e l’occupazione.
La crisi è una mina per le istituzioni dell’Unione. Proprio mentre i “grandi” a Berlino delineavano una strategia di regolazione “mondialistica” (e si mostravano contrari a nazionalizzazioni bancarie, ed a “bad banks” sia nazionali sia multilaterali) dai cassetti della Commissione Europea bozze di direttive che invece prevedevano proprio nazionalizzazioni bancarie e “bad banks”.
La Gran Bretagna, a Berlino, si è mostrata unita agli altri “grandi”; a Londra, a Washington ed a Bruxelles, invece, sfoggia (ed a volte ostenta) posizioni “atlantiche” in tema di nazionalizzazioni e “bad banks”. Quindi, in seno al Consiglio Europeo neanche i quattro “grandi” sono uniti; e c’è chi fa due parti in commedia. Inoltre, all’Ecofin nessuno ha ripreso in mano il dossier dal “rapporto Lanfalussy” del dicembre 2007, che contiene suggerimenti operativi concreti per rimettere ordine nel groviglio di regolazione e vigilanza in materia di servizi finanziari tra i 27 Stati Ue; un percorso verso un riordino (se non è fattibile effettuare almeno i primi passi del riordino) è indispensabile per mostrare che l’Ue è in grado di parlare con una sola voce (o almeno all’unisono) al G20 oppure in altre sedi dove si tenta di tamponare e, se possibile, curare la crisi. Ove ciò non bastasse, l’architettura tratteggiata dai quattro “grandi” e la riforma di Fondo monetario, Banca mondiale e via discorrendo non sfiora il nodo che da dieci anni blocca analoghi piani di riassetto: in tali sedi, l’Ue avrà un seggio a titolo di Unione? Oppure Francia, Germania e Gran Bretagna conserveranno, in perpetuità, i loro seggi permanenti (da cui spesso emergono posizioni differenti) e l’Unione sarà una sorta di “fantasma dell’opera”? E l’Italia dovrà accontentarsi di uno strapuntino a mezzadria con Polonia, Grecia, Cipro, Malta e via discorrendo?
In aggiunta, ci sono una varietà di problemi immediati che riguardano i Paesi neocomunitari, alcuni indebitatisi sino al collo con titoli spazzatura nell’euforia di correre dal piano al mercato. Alcuni (Ungheria) pensano di risolverli con un ingresso accelerato nell’unione monetaria: l’euro farebbe da corazza socializzando il debito con gli altri membri del club (ma questi ultimi sono d’accordo?). Altri (Lettonia) progettano di dichiarare fallimento (come l’Islanda) - una mossa che, bene o male, inficerebbe la credibilità dell’Unione tutta. Dato che la crisi (sia finanziaria sia economica) morde soprattutto in Europa centrale ed orientale, si sono caricate la Banca europea per gli investimenti (Bei) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) con una marea di compiti nuovi (che non paiono fare parte di un programma organico e senza che Bei e Bers abbiano le risorse, soprattutto, in personale per svolgerli); Bei e Bers rischiano di finanziare operazioni avventati con danni collaterali al loro prestigio che minacciano di durare a lungo.
Un invito ai convitati: tra un “homard” ed una “crème patissère” riflettete su questi temi.
Sulla crisi ognuno dà i numeri ma nessuno li conosce davvero
di Fabrizio Goria
27 Febbraio 2009
Passano i giorni e la crisi finanziaria peggiora sempre più. In America si combatte contro gli zombie, come sono state definite le banche a rischio default, mentre nel Regno Unito si fanno i conti con le trimestrali da brivido di Royal Bank of Scotland. Molti hanno cercato di quantificare l’esposizione che le banche, le società finanziarie e le imprese hanno nei confronti dei derivati, senza trovare una risposta certa.
L’ultimo in ordine di tempo è il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale, a margine dell’audizione post G8 a Palazzo Madama, ha espresso la sua opinione sui numeri della crisi. «In questo momento il volume nazionale dei derivati, secondo i dati del Congresso degli Stati Uniti, ma anche secondo i dati della Banca dei Regolamenti, è 12,5 volte il Pil del mondo» ha affermato Tremonti, facendo riferimento al valore degli asset che compongono la base del contratto che costituisce lo strumento derivato. Il riferimento ai capri espiatori della peggior fase economica dalla Grande Depressione è chiaro: credit default swaps, asset backed securities e collateralized debt obligations sono diventati tristemente noti a partire dal fallimento di New Century Financial, nell’maggio 2007.
L’intervento del ministro ha suscitato l’interesse di molti. In effetti, pochi hanno cercato di stimare l’entità della crisi. Uno di questi è l’economista turco (con un passato in Bocconi) Nouriel Roubini, docente alla New York University. Il fondatore dell’agenzia di consulenza RGE Monitor ha fornito una stima delle perdite complessive degli Stati Uniti dopo lo scoppio della bolla immobiliare, di cui era stato preveggente nel 2006 contro i pareri di molti accademici. Una valutazione di merito, nell’ordine di circa 3,6 trilioni di dollari, considerando l’esposizione finora emersa degli istituti di credito ed ipotizzando i restanti toxic asset sulla base della situazione patrimoniale ante agosto 2007.
Sul fronte istituzionale, Bank of America ha calcolato quanto le borse mondiali hanno perso in termini di capitalizzazione dal fallimento di Lehman Brothers. La cifra diramata il 10 febbraio è spaventosa: 7,7 trilioni di dollari, circa il 14,7% dei valori globali. Le settimane nere delle piazze azionarie hanno quindi bruciato poco più di un decimo del Pil mondiale. Anche l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha stimato le perdite complessive delle borse, rimarcando quello del gennaio appena trascorso, 5,2 trilioni. Questi sono certo numeri impressionanti, ma torniamo a quanto affermato da Tremonti.
Sfogliando il World Economic Outlook dell’IMF (o il World Factbook della CIA), emerge con facilità il dato del prodotto interno lordo (a parità di potere d’acquisto) del pianeta: poco più di 70 trilioni di dollari. Ora, se si moltiplica per 12,5 volte il Pil mondiale, dovremmo avere il nozionale del mercato dei derivati, ovvero 875 trilioni di dollari, centesimo più centesimo meno. Questo significa che, se nel 2012 non ci piomba addosso il famoso asteroide atzeco, ci penseranno i derivati a distruggerci. Il vero problema, però, sta in ciò che si dice e nella sua forma.
Affermare che l’economia mondiale poggia su un terreno minato può essere veritiero, lo abbiamo visto, ma bisogna star attenti con le cifre. Prima di tutto, si deve comprendere a quale gioco si sta giocando: nella valutazione del mercato derivatives cosa entra e cosa viene escluso? Sono stati calcolati anche i mercati OTC (Over-The-Counter)? In che modo è stato valutato il leverage?
Che senso ha, nell’ottica del Congresso, fornire dati senza legittimarne a pieno la provenienza e la composizione? Specie in un momento come questo, in cui le borse percepiscono (per lo più negativamente) ogni sussurro dei governanti. L’esempio delle parole illuminanti di Ben Bernanke sulla fine della congiuntura negativa è emblematico: il rimbalzo di Wall Street è giusto durato il tempo di leggere sui quotidiani delle perdite di RBS e del cambio al vertice di UBS.
Freneticamente si ricerca la fiducia perduta, ma per ritrovarla c’è bisogno di credibilità, che si ottiene solo con numeri esatti e misure corrette. E ad oggi, i mercati ricordano che non vi sono né gli uni né le altre.
27 Febbraio 2009
Passano i giorni e la crisi finanziaria peggiora sempre più. In America si combatte contro gli zombie, come sono state definite le banche a rischio default, mentre nel Regno Unito si fanno i conti con le trimestrali da brivido di Royal Bank of Scotland. Molti hanno cercato di quantificare l’esposizione che le banche, le società finanziarie e le imprese hanno nei confronti dei derivati, senza trovare una risposta certa.
L’ultimo in ordine di tempo è il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale, a margine dell’audizione post G8 a Palazzo Madama, ha espresso la sua opinione sui numeri della crisi. «In questo momento il volume nazionale dei derivati, secondo i dati del Congresso degli Stati Uniti, ma anche secondo i dati della Banca dei Regolamenti, è 12,5 volte il Pil del mondo» ha affermato Tremonti, facendo riferimento al valore degli asset che compongono la base del contratto che costituisce lo strumento derivato. Il riferimento ai capri espiatori della peggior fase economica dalla Grande Depressione è chiaro: credit default swaps, asset backed securities e collateralized debt obligations sono diventati tristemente noti a partire dal fallimento di New Century Financial, nell’maggio 2007.
L’intervento del ministro ha suscitato l’interesse di molti. In effetti, pochi hanno cercato di stimare l’entità della crisi. Uno di questi è l’economista turco (con un passato in Bocconi) Nouriel Roubini, docente alla New York University. Il fondatore dell’agenzia di consulenza RGE Monitor ha fornito una stima delle perdite complessive degli Stati Uniti dopo lo scoppio della bolla immobiliare, di cui era stato preveggente nel 2006 contro i pareri di molti accademici. Una valutazione di merito, nell’ordine di circa 3,6 trilioni di dollari, considerando l’esposizione finora emersa degli istituti di credito ed ipotizzando i restanti toxic asset sulla base della situazione patrimoniale ante agosto 2007.
Sul fronte istituzionale, Bank of America ha calcolato quanto le borse mondiali hanno perso in termini di capitalizzazione dal fallimento di Lehman Brothers. La cifra diramata il 10 febbraio è spaventosa: 7,7 trilioni di dollari, circa il 14,7% dei valori globali. Le settimane nere delle piazze azionarie hanno quindi bruciato poco più di un decimo del Pil mondiale. Anche l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha stimato le perdite complessive delle borse, rimarcando quello del gennaio appena trascorso, 5,2 trilioni. Questi sono certo numeri impressionanti, ma torniamo a quanto affermato da Tremonti.
Sfogliando il World Economic Outlook dell’IMF (o il World Factbook della CIA), emerge con facilità il dato del prodotto interno lordo (a parità di potere d’acquisto) del pianeta: poco più di 70 trilioni di dollari. Ora, se si moltiplica per 12,5 volte il Pil mondiale, dovremmo avere il nozionale del mercato dei derivati, ovvero 875 trilioni di dollari, centesimo più centesimo meno. Questo significa che, se nel 2012 non ci piomba addosso il famoso asteroide atzeco, ci penseranno i derivati a distruggerci. Il vero problema, però, sta in ciò che si dice e nella sua forma.
Affermare che l’economia mondiale poggia su un terreno minato può essere veritiero, lo abbiamo visto, ma bisogna star attenti con le cifre. Prima di tutto, si deve comprendere a quale gioco si sta giocando: nella valutazione del mercato derivatives cosa entra e cosa viene escluso? Sono stati calcolati anche i mercati OTC (Over-The-Counter)? In che modo è stato valutato il leverage?
Che senso ha, nell’ottica del Congresso, fornire dati senza legittimarne a pieno la provenienza e la composizione? Specie in un momento come questo, in cui le borse percepiscono (per lo più negativamente) ogni sussurro dei governanti. L’esempio delle parole illuminanti di Ben Bernanke sulla fine della congiuntura negativa è emblematico: il rimbalzo di Wall Street è giusto durato il tempo di leggere sui quotidiani delle perdite di RBS e del cambio al vertice di UBS.
Freneticamente si ricerca la fiducia perduta, ma per ritrovarla c’è bisogno di credibilità, che si ottiene solo con numeri esatti e misure corrette. E ad oggi, i mercati ricordano che non vi sono né gli uni né le altre.
Perché il nuovo piano edilizio del Cav.
di Francesco Forte
10 Marzo 2009
Cementificazione, anarchia. Con queste frasi è stato accolto il progetto, che presto diventerà legge, di aumentare del 20 per cento le cubature delle casse, in deroga ai vigenti piani, mediante licenze edilizie auto certificate. E’ una retorica quasi incomprensibile per questo piano che è conforme all’economia sociale di mercato. Che non è una economia dirigista e vincolista ma una economia basata sulla proprietà e sull ’iniziativa privata, in cui il governo pone regole per evitare che il loro esercizio danneggi le libertà altrui. Regole che preferibilmente sono auto gestite dal privato medesimo in base al principio di sussidiarietà.
Il regime delle licenze edilizie attuale è frutto di una urbanistica assurda, secondo cui la proprietà della superficie del suolo è pubblica ed è lo stato che concede al proprietario privato il diritto di costruire su tale superficie. Spero che prima o poi si stabilisca, in generale, che lo stato non è proprietario del diritto di costruire sul suolo, la lo è il privato, che possiede il terreno.
In una economia sociale di mercato, lo stato regola il diritto di proprietà, non lo crea. Quanto alla retorica per cui ciò faciliterà l’abusivismo edilizio è vero il contrario. E’ infatti facile dimostrare che l’abusivismo pullula quando le leggi sono troppo restrittive e quindi il rispettarle è troppo costoso. Se le leggi sono più miti, la gente le rispetta più facilmente e le autorità pubblica fanno meno fatica e incorrono in minor impopolarità nel farle rispettare. Quanto alla cementificazione, qui l’espressione, carica di vecchia retorica, è fuori luogo. Si ha cementificazione del territorio quando si ampliano gli spazi edificati e ciò accade soprattutto quando si costruiscono case base, come le villette a due piani, che mangiano lo spazio verde e richiedono lunghe strade. Invece, con questa nuova regola, si costruirà un piano in più, sul suolo già edificato. E ciò darà luogo non a un peggioramento ma a un miglioramento ambientale, in quanto si userà meglio lo spazio costruito attuale e si ridurranno i costi di trasporto, dovuti alla necessità di costruire fuori dai centri abitati.
Si ridurrà il costo per metro cubo edificato. Infatti se una casa ha un piano in più, con lo stesso terreno, le stesse fondamenta, lo stesso tetto, lo stesso vano scala, lo stesso sistema di riscaldamento centrale, si riducono le spese per i costi comuni che pesano su ogni vano utile. E quanto agli immobili storici e artistici, il diritto a cubature aggiuntive consente di mantenere meglio la parte vincolata, grazie a un maggior utilizzo della parte non vincolata. Le ricadute sociali positive di questo programma sono evidenti. Che vi si oppongano le sinistre è assurdo, perché è chiaramente una misura che serve per combattere la crisi accrescendo il concreto diritto della gente a farsi la casa. Ed è una bella risposta, che solo una persona fantasiosa e pratica come Berlusconi poteva avere, alla politica forsennata dei mutui immobiliari subprime, che ha innescato la attuale crisi finanziaria mondiale.
Finanziando famiglie con modesto reddito in modo sproporzionato con mutui immobiliari pari al 100 per cento del valore gonfiato degli immobili, si sono create tante nuove case, che non sono state neppure terminate perché le famiglie indebitate sono state sfrattate. In luogo di quello spreco edilizio, di quei sogni infranti, ecco il risparmio edilizio, consistente nel valorizzare il patrimonio che c’è operando non sul 100 per cento, ma sul quinto, senza creare nuove case che non si sostengono ma migliorando quelle che ci sono.
Anche il piano anti crisi del governo di 16,6 miliardi di grandi opere che il governo costituisce un intervento di politica congiunturale conforme ai principi dell’economia sociale di mercato. Ed ha anche il vantaggio della coerenza con le altre misure consistenti nel rafforzamento patrimoniale delle banche per far ripartire il credito alle imprese, nella adozione di nuovi strumenti di credito a favore dell’economia da parte della Cassa Depositi e Prestiti e nelle misure di cui si è appena detto, per il rilancio dell’edilizia di abitazione, tutte politiche di sostegno della domanda di investimenti.
Non è vero che la politica di grandi opere serve a poco per fronteggiare la crisi, in quanto i suoi primi effetti si avranno solo alla fine del 2009. Chi fa questa critica sembra non comprendere che l’attuale crisi di origine internazionale è nata da due errori da non ripetere nelle politiche anticrisi: quello di privilegiare la espansione della domanda di consumi rispetto all’investimento nella illusione di un facile benessere per tutti e quello di privilegiare il breve termine rispetto al medio e lungo termine senza curarsi della sostenibilità della crescita.
Il piano delle grandi opere che il governo vara con ricorso a stanziamenti di bilancio, a risorse della comunità europea e all’investimento delle imprese, mediante la finanza di progetto sorregge la domanda mediante la creazione di un capitale sociale che genererà benessere, mediante la crescita della produttività delle imprese e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone. La parte del finanziamento a debito, che ciò comporta, ha una contropartita in beni che restano e che produrranno reddito, a differenza del credito al consumo, basato sul finanziamento di mutui immobiliari in eccesso alle capacità di reddito delle famiglie e sulle carte di credito con il principio “spendi oggi, paga domani”, che sono all’origine della crisi bancaria internazionale.
La realizzazione delle grandi opere è un lavoro che si protrae nel tempo e che, anche per la progettazione e l’organizzazione delle attività richiede tempo. Ma fortunatamente si tratta di opere i cui progetti di massima sono già pronti e i cui cantieri possono partire alla fine del 2009. Quindi rientrano fra le politiche che servono di fronte ad una crisi che, dal punto di vista internazionale, non si presenta come temporanea e che nel 2010, se non si provvede sarà più dura che ora. Al presente si può ancora contare sul fatto che nel 2008 il bilancio pubblico ha avuto un deficit inferiore al 3 per cento e che le imprese non presenteranno bilanci negativi per il 2008 in quanto sono riuscite a compensare il cattivo andamento del quarto trimestre con quello positivo o non negativo dei primi tre. Sino ad ora non vi è stata una diminuzione di occupazione, il reddito delle famiglie a causa della discesa dell’inflazione tiene e le politiche di sostegno mediante gli ammortizzatori sociali, messe in atto, aiutano a superare le difficoltà. Ma dobbiamo guardare avanti e attrezzarci per un secondo semestre del 2009 che, se adottano per tempo le misure adeguate, può essere peggiore del primo.
La spirale discendente in cui si trovano ora gli Usa potrebbe abbattersi su di noi, con uno sfasamento temporale di sei mesi ed è importante preparare le difese. A ciò serve il piano per la casa e serve quello per le grandi opere. Si critica questo piano perché per l’80 per cento riguarda il Sud, ma il lavoro che darà alle imprese, riguarda sopratutto quelle del centro nord. E si sostiene che il ponte sullo stretto è di dubbia utilità mentre sarebbe stato preferibile puntare sui progetti di alta velocità. Ma l’ Alta Velocità Torino Lione e Milano Venezia sono state bloccate dalla sinistra di lotta e da quella di governo. La prima dai verdi e dai sindaci di sinistra, la seconda dal Ministro delle infrastrutture Di Pietro che ha inventato nuove incombenze burocratiche de sostituito il contenzioso giudiziario al lavoro delle imprese. C’è poi la critica di Sergio Rizzo nell’inserto economico del Corriere della Sera sulla dubbia utilità e finanzialbilità del Ponte sullo Stretto, il cui costo è valutato attualmente in 6 miliardi di euro, contro i 5 precedenti. Il miliardo di euro in più disturba enormemente il giornalista. E lo disturba anche il problema del finanziamento di un’opera che, guarda caso, a parte il contributo a fondo perso del governo di 1,2 miliardi è tutta finanziata con finanza di progetto ed è gestita interamente da imprese private. L’opera è destinata a durare centinaia d’anni, fa parte del corridoio europeo Berlino Palermo.
Quando si tratta di ammortizzatori sociali gli ordini di grandezza sono di qualche miliardo ogni anno e l’idea di un miliardo in più non disturba nessuno, di fronte al corridoio europeo Berlino-Palermo ci si blocca e non ci si domanda neppure se collegare la Sicilia al continente e al Nord Europa non sia il modo migliore per combattere le consorterie locali e il controllo del territorio da parte della mafia. Rizzo non crede che esse possano fare in 10 mesi la progettazione esecutiva necessaria per far partire i lavori perché l’Anas di solito ci impiega anni ma sembra ignorare che il privato che alla fine del progetto esecutivo riceve il miliardo statale, ha un interesse a guadagnar tempo, mentre la burocrazia pubblica ha interesse a perderlo. Soprattutto Rizzo (ma molti come lui) non si rende conto che questo ponte sostituirà i traghetti, che comportano una sovvenzione annua alle imprese messinesi e un’altra alle ferrovie dello stato, per i costi del traghetto, i cui ricavi vanno alle medesime imprese. Una parte consistente del finanziamento è costituita dalla devoluzione della sovvenzione alle imprese di traghetto alla società che costruisce il ponte e di quella alle ferrovie al finanziamento della sua quota di partecipazione al finanziamento di quest’opera. Queste spese correnti sono trasformate in spese in conto capitale a favore delle future generazioni. Dal breve termine al lunghissimo termine.
La crisi è nata dalla considerazione dei guadagni finanziari di breve termine, se ne esce con una economia di mercato che guarda al lungo termine nel quadro di una politica pubblica di struttura che la orienta in questa direzione, perché compito dello stato è di curarsi del futuro con un orizzonte più ampio del privato.
10 Marzo 2009
Cementificazione, anarchia. Con queste frasi è stato accolto il progetto, che presto diventerà legge, di aumentare del 20 per cento le cubature delle casse, in deroga ai vigenti piani, mediante licenze edilizie auto certificate. E’ una retorica quasi incomprensibile per questo piano che è conforme all’economia sociale di mercato. Che non è una economia dirigista e vincolista ma una economia basata sulla proprietà e sull ’iniziativa privata, in cui il governo pone regole per evitare che il loro esercizio danneggi le libertà altrui. Regole che preferibilmente sono auto gestite dal privato medesimo in base al principio di sussidiarietà.
Il regime delle licenze edilizie attuale è frutto di una urbanistica assurda, secondo cui la proprietà della superficie del suolo è pubblica ed è lo stato che concede al proprietario privato il diritto di costruire su tale superficie. Spero che prima o poi si stabilisca, in generale, che lo stato non è proprietario del diritto di costruire sul suolo, la lo è il privato, che possiede il terreno.
In una economia sociale di mercato, lo stato regola il diritto di proprietà, non lo crea. Quanto alla retorica per cui ciò faciliterà l’abusivismo edilizio è vero il contrario. E’ infatti facile dimostrare che l’abusivismo pullula quando le leggi sono troppo restrittive e quindi il rispettarle è troppo costoso. Se le leggi sono più miti, la gente le rispetta più facilmente e le autorità pubblica fanno meno fatica e incorrono in minor impopolarità nel farle rispettare. Quanto alla cementificazione, qui l’espressione, carica di vecchia retorica, è fuori luogo. Si ha cementificazione del territorio quando si ampliano gli spazi edificati e ciò accade soprattutto quando si costruiscono case base, come le villette a due piani, che mangiano lo spazio verde e richiedono lunghe strade. Invece, con questa nuova regola, si costruirà un piano in più, sul suolo già edificato. E ciò darà luogo non a un peggioramento ma a un miglioramento ambientale, in quanto si userà meglio lo spazio costruito attuale e si ridurranno i costi di trasporto, dovuti alla necessità di costruire fuori dai centri abitati.
Si ridurrà il costo per metro cubo edificato. Infatti se una casa ha un piano in più, con lo stesso terreno, le stesse fondamenta, lo stesso tetto, lo stesso vano scala, lo stesso sistema di riscaldamento centrale, si riducono le spese per i costi comuni che pesano su ogni vano utile. E quanto agli immobili storici e artistici, il diritto a cubature aggiuntive consente di mantenere meglio la parte vincolata, grazie a un maggior utilizzo della parte non vincolata. Le ricadute sociali positive di questo programma sono evidenti. Che vi si oppongano le sinistre è assurdo, perché è chiaramente una misura che serve per combattere la crisi accrescendo il concreto diritto della gente a farsi la casa. Ed è una bella risposta, che solo una persona fantasiosa e pratica come Berlusconi poteva avere, alla politica forsennata dei mutui immobiliari subprime, che ha innescato la attuale crisi finanziaria mondiale.
Finanziando famiglie con modesto reddito in modo sproporzionato con mutui immobiliari pari al 100 per cento del valore gonfiato degli immobili, si sono create tante nuove case, che non sono state neppure terminate perché le famiglie indebitate sono state sfrattate. In luogo di quello spreco edilizio, di quei sogni infranti, ecco il risparmio edilizio, consistente nel valorizzare il patrimonio che c’è operando non sul 100 per cento, ma sul quinto, senza creare nuove case che non si sostengono ma migliorando quelle che ci sono.
Anche il piano anti crisi del governo di 16,6 miliardi di grandi opere che il governo costituisce un intervento di politica congiunturale conforme ai principi dell’economia sociale di mercato. Ed ha anche il vantaggio della coerenza con le altre misure consistenti nel rafforzamento patrimoniale delle banche per far ripartire il credito alle imprese, nella adozione di nuovi strumenti di credito a favore dell’economia da parte della Cassa Depositi e Prestiti e nelle misure di cui si è appena detto, per il rilancio dell’edilizia di abitazione, tutte politiche di sostegno della domanda di investimenti.
Non è vero che la politica di grandi opere serve a poco per fronteggiare la crisi, in quanto i suoi primi effetti si avranno solo alla fine del 2009. Chi fa questa critica sembra non comprendere che l’attuale crisi di origine internazionale è nata da due errori da non ripetere nelle politiche anticrisi: quello di privilegiare la espansione della domanda di consumi rispetto all’investimento nella illusione di un facile benessere per tutti e quello di privilegiare il breve termine rispetto al medio e lungo termine senza curarsi della sostenibilità della crescita.
Il piano delle grandi opere che il governo vara con ricorso a stanziamenti di bilancio, a risorse della comunità europea e all’investimento delle imprese, mediante la finanza di progetto sorregge la domanda mediante la creazione di un capitale sociale che genererà benessere, mediante la crescita della produttività delle imprese e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone. La parte del finanziamento a debito, che ciò comporta, ha una contropartita in beni che restano e che produrranno reddito, a differenza del credito al consumo, basato sul finanziamento di mutui immobiliari in eccesso alle capacità di reddito delle famiglie e sulle carte di credito con il principio “spendi oggi, paga domani”, che sono all’origine della crisi bancaria internazionale.
La realizzazione delle grandi opere è un lavoro che si protrae nel tempo e che, anche per la progettazione e l’organizzazione delle attività richiede tempo. Ma fortunatamente si tratta di opere i cui progetti di massima sono già pronti e i cui cantieri possono partire alla fine del 2009. Quindi rientrano fra le politiche che servono di fronte ad una crisi che, dal punto di vista internazionale, non si presenta come temporanea e che nel 2010, se non si provvede sarà più dura che ora. Al presente si può ancora contare sul fatto che nel 2008 il bilancio pubblico ha avuto un deficit inferiore al 3 per cento e che le imprese non presenteranno bilanci negativi per il 2008 in quanto sono riuscite a compensare il cattivo andamento del quarto trimestre con quello positivo o non negativo dei primi tre. Sino ad ora non vi è stata una diminuzione di occupazione, il reddito delle famiglie a causa della discesa dell’inflazione tiene e le politiche di sostegno mediante gli ammortizzatori sociali, messe in atto, aiutano a superare le difficoltà. Ma dobbiamo guardare avanti e attrezzarci per un secondo semestre del 2009 che, se adottano per tempo le misure adeguate, può essere peggiore del primo.
La spirale discendente in cui si trovano ora gli Usa potrebbe abbattersi su di noi, con uno sfasamento temporale di sei mesi ed è importante preparare le difese. A ciò serve il piano per la casa e serve quello per le grandi opere. Si critica questo piano perché per l’80 per cento riguarda il Sud, ma il lavoro che darà alle imprese, riguarda sopratutto quelle del centro nord. E si sostiene che il ponte sullo stretto è di dubbia utilità mentre sarebbe stato preferibile puntare sui progetti di alta velocità. Ma l’ Alta Velocità Torino Lione e Milano Venezia sono state bloccate dalla sinistra di lotta e da quella di governo. La prima dai verdi e dai sindaci di sinistra, la seconda dal Ministro delle infrastrutture Di Pietro che ha inventato nuove incombenze burocratiche de sostituito il contenzioso giudiziario al lavoro delle imprese. C’è poi la critica di Sergio Rizzo nell’inserto economico del Corriere della Sera sulla dubbia utilità e finanzialbilità del Ponte sullo Stretto, il cui costo è valutato attualmente in 6 miliardi di euro, contro i 5 precedenti. Il miliardo di euro in più disturba enormemente il giornalista. E lo disturba anche il problema del finanziamento di un’opera che, guarda caso, a parte il contributo a fondo perso del governo di 1,2 miliardi è tutta finanziata con finanza di progetto ed è gestita interamente da imprese private. L’opera è destinata a durare centinaia d’anni, fa parte del corridoio europeo Berlino Palermo.
Quando si tratta di ammortizzatori sociali gli ordini di grandezza sono di qualche miliardo ogni anno e l’idea di un miliardo in più non disturba nessuno, di fronte al corridoio europeo Berlino-Palermo ci si blocca e non ci si domanda neppure se collegare la Sicilia al continente e al Nord Europa non sia il modo migliore per combattere le consorterie locali e il controllo del territorio da parte della mafia. Rizzo non crede che esse possano fare in 10 mesi la progettazione esecutiva necessaria per far partire i lavori perché l’Anas di solito ci impiega anni ma sembra ignorare che il privato che alla fine del progetto esecutivo riceve il miliardo statale, ha un interesse a guadagnar tempo, mentre la burocrazia pubblica ha interesse a perderlo. Soprattutto Rizzo (ma molti come lui) non si rende conto che questo ponte sostituirà i traghetti, che comportano una sovvenzione annua alle imprese messinesi e un’altra alle ferrovie dello stato, per i costi del traghetto, i cui ricavi vanno alle medesime imprese. Una parte consistente del finanziamento è costituita dalla devoluzione della sovvenzione alle imprese di traghetto alla società che costruisce il ponte e di quella alle ferrovie al finanziamento della sua quota di partecipazione al finanziamento di quest’opera. Queste spese correnti sono trasformate in spese in conto capitale a favore delle future generazioni. Dal breve termine al lunghissimo termine.
La crisi è nata dalla considerazione dei guadagni finanziari di breve termine, se ne esce con una economia di mercato che guarda al lungo termine nel quadro di una politica pubblica di struttura che la orienta in questa direzione, perché compito dello stato è di curarsi del futuro con un orizzonte più ampio del privato.
Non può essere questo stato l'antidoto alla crisi
di Milton
19 Marzo 2009
Di stato in Italia ce n’è fin troppo e continua ad affamarci per pagare le sue rendite e le sue clientele. E’ la presenza dello stato che non ci ha fatto crescere economicamente, che ci rende schiavi della burocrazia, che non ci lascia liberi di intraprendere.
Le recenti polemiche sul ruolo di controllo dei prefetti nelle dinamiche delle politiche di credito delle banche e, più in generale, gli scambi di sciabolate tra insigni editorialisti sul ruolo delle stato (il lettore capirà in seguito, perché la s è rigorosamente minuscola) rispetto alla crisi finanziaria in atto, stanno avendo la perniciosa capacità, soprattutto nel nostro Paese, di diluire la già debole e minoritaria cultura delle riforme di libertà, di cui il nostro futuro avrebbe tanto bisogno.
Si sta infatti facendo strada, soprattutto in quelli che si definiscono ancora liberali ma di fatto non lo sono mai stati, un atteggiamento che porta a santificare la cosidetta economia sociale di mercato, come antidoto miracoloso alla crisi in atto.
Il problema però è che l’economia sociale di mercato, per come la si è intesa e la si intende in Italia, non è il cosidetto modello renano che ha sì alimentato per anni la locomotiva tedesca, ma ha anche gettato la Germania in una crisi economica e produttiva ben antecedente alla crisi globale attuale. Per i nostri liberali a geometria variabile con elementi di colbertismo, socialismo proudoniano e, perché no, di comunitarismo, l’economia sociale di mercato è un modo à la page per dire che lo stato deve tornare ad occuparsi di economia, perché il mercato, cattivo e selvaggio, non è per sua natura capace di autoregolarsi. Ed ancora sotengono che i fenomeni della globalizzazione hanno via via scemato la forza dello Stato, per condurci sempre più verso una selvaggia anarchia mercatista, dove manager senza scrupoli con bonus miliardari azzannano e concupiscono ogni giorno moltitudini di inetti, ignari dei rischi che stanno correndo.
Non voglio addentrarmi nell’analisi del grado di demagogia che accompagna la maggioranza degli analisti e dei politici in questo periodo di crisi, voglio solo approfondire quanto sia debole ed indefesa la presenza dello stato in questo nostro sgangherato Paese.
Lo stato in Italia è così debole che ogni anno spende più della metà di quanto gli italiani producono e costringe gli stessi a lavorare esclusivamente per lui, per quasi i due terzi dell’intero orario di lavoro. E’ uno stato così debole che costa al cittadino italiano 4.500 euro all’anno, quasi il doppio della media europea, costo al quale ovviamente non corrisponde il relativo servizio: per una TAC servono semestri, per la sicurezza servono le ronde, per costrire una casa serve l’amicizia del geometra comunale, per smaltire i rifiuti servono i militari.
La verità è che di stato in Italia ce n’è fin troppo e continua ad affamarci per pagare le sue rendite e le sue clientele. E’ la presenza dello stato che non ci ha fatto crescere economicamente, che ci rende schiavi della burocrazia, che non ci lascia liberi di intraprendere. E’ la presenza dello stato che ha bloccato da anni l’ascensore sociale, umiliando il merito a favore dell’egualitarismo parassitario.
Chi sfrutta la crisi in atto per rinverdire il ruolo dello stato e della politica nell’economia e nella vita delle persone, si prende una grande responsabilità nei confronti delle generazioni future, alle quali verrebbe consegnato un paese immobile, strutturalmente inadatto a crescere, dove continueranno i vincere i furbi e i soliti noti parassiti dello stato. Cos’altro serve per essere definiti “cattivi maestri”?
19 Marzo 2009
Di stato in Italia ce n’è fin troppo e continua ad affamarci per pagare le sue rendite e le sue clientele. E’ la presenza dello stato che non ci ha fatto crescere economicamente, che ci rende schiavi della burocrazia, che non ci lascia liberi di intraprendere.
Le recenti polemiche sul ruolo di controllo dei prefetti nelle dinamiche delle politiche di credito delle banche e, più in generale, gli scambi di sciabolate tra insigni editorialisti sul ruolo delle stato (il lettore capirà in seguito, perché la s è rigorosamente minuscola) rispetto alla crisi finanziaria in atto, stanno avendo la perniciosa capacità, soprattutto nel nostro Paese, di diluire la già debole e minoritaria cultura delle riforme di libertà, di cui il nostro futuro avrebbe tanto bisogno.
Si sta infatti facendo strada, soprattutto in quelli che si definiscono ancora liberali ma di fatto non lo sono mai stati, un atteggiamento che porta a santificare la cosidetta economia sociale di mercato, come antidoto miracoloso alla crisi in atto.
Il problema però è che l’economia sociale di mercato, per come la si è intesa e la si intende in Italia, non è il cosidetto modello renano che ha sì alimentato per anni la locomotiva tedesca, ma ha anche gettato la Germania in una crisi economica e produttiva ben antecedente alla crisi globale attuale. Per i nostri liberali a geometria variabile con elementi di colbertismo, socialismo proudoniano e, perché no, di comunitarismo, l’economia sociale di mercato è un modo à la page per dire che lo stato deve tornare ad occuparsi di economia, perché il mercato, cattivo e selvaggio, non è per sua natura capace di autoregolarsi. Ed ancora sotengono che i fenomeni della globalizzazione hanno via via scemato la forza dello Stato, per condurci sempre più verso una selvaggia anarchia mercatista, dove manager senza scrupoli con bonus miliardari azzannano e concupiscono ogni giorno moltitudini di inetti, ignari dei rischi che stanno correndo.
Non voglio addentrarmi nell’analisi del grado di demagogia che accompagna la maggioranza degli analisti e dei politici in questo periodo di crisi, voglio solo approfondire quanto sia debole ed indefesa la presenza dello stato in questo nostro sgangherato Paese.
Lo stato in Italia è così debole che ogni anno spende più della metà di quanto gli italiani producono e costringe gli stessi a lavorare esclusivamente per lui, per quasi i due terzi dell’intero orario di lavoro. E’ uno stato così debole che costa al cittadino italiano 4.500 euro all’anno, quasi il doppio della media europea, costo al quale ovviamente non corrisponde il relativo servizio: per una TAC servono semestri, per la sicurezza servono le ronde, per costrire una casa serve l’amicizia del geometra comunale, per smaltire i rifiuti servono i militari.
La verità è che di stato in Italia ce n’è fin troppo e continua ad affamarci per pagare le sue rendite e le sue clientele. E’ la presenza dello stato che non ci ha fatto crescere economicamente, che ci rende schiavi della burocrazia, che non ci lascia liberi di intraprendere. E’ la presenza dello stato che ha bloccato da anni l’ascensore sociale, umiliando il merito a favore dell’egualitarismo parassitario.
Chi sfrutta la crisi in atto per rinverdire il ruolo dello stato e della politica nell’economia e nella vita delle persone, si prende una grande responsabilità nei confronti delle generazioni future, alle quali verrebbe consegnato un paese immobile, strutturalmente inadatto a crescere, dove continueranno i vincere i furbi e i soliti noti parassiti dello stato. Cos’altro serve per essere definiti “cattivi maestri”?
Quello che il Governo sta facendo per combattere la crisi
Inserisci uno o più indirizzi separati da virgole. di Vito Schepisi20 Marzo 2009
I soldi sono solo sulla carta e non sono veri quando, come alcuni sostengono, si formano su ipotesi di distribuzione a spese degli altri, senza averli incassati e senza valutarne l’impatto, anche in termini di fiducia, con coloro che dovrebbero metterli a disposizione. Di soldi non veri si è sentito parlare a cataste in questa settimana, da quelli per garantire il salario per tutti, agli altri per gravare sui redditi più alti ed offrire un’elemosina (circa 5 euro al mese) ai meno fortunati.
Il sistema fiscale italiano, progressivo, trova la quasi totalità dei cittadini entro fasce di reddito, che vanno dalle più basse alle medio-alte, con aliquote già molto elevate e spesso non sostenibili. E’ quasi insignificante, rispetto alla totalità dei contribuenti, il numero di coloro che, invece, godono di alte fasce di reddito e che hanno aliquote di prelievo fiscale già maggiorate, quasi al limite della convenienza economica per programmi di crescita e di investimenti.
Con le sole ipotesi, si sa, è possibile far volare anche gli elefanti, soprattutto quando sulla responsabilità prevale tanta insana demagogia e tanta insensibilità per le sorti del Paese. E’ necessario, invece, uscire presto e bene dall’attuale crisi globale dei mercati e si ha bisogno della fiducia e dell’impegno degli italiani.
Quando la Presidente degli Industriali, Emma Marcegaglia, ha parlato di soldi veri si è riferita alle disponibilità immediate dei finanziamenti a favore delle imprese, e dal suo punto di vista ha ragione. La piccola e media industria soffre di crisi di liquidità. Il denaro è fermo, non gira. Il fatturato si riduce e con il calo della domanda si riducono i margini. I capitali delle imprese sono impiegati sulle scorte che non vengono smaltite. Non si riesce a far fronte alle spese correnti ed agli impegni finanziari programmati (mutui, leasing, investimenti). La spinta diretta alle banche di finanziare le imprese, anche con gli strumenti messi a disposizione con i Tremonti-Bond, procede con molta lentezza. C’è preoccupazione ed attesa. Il sistema bancario non riesce ancora a quantificare le perdite dei portafogli delle singole aziende di credito. Anche gli assetti manageriali delle banche mostrano impreparazione e inadeguatezza, soprattutto in relazione ai lauti compensi percepiti che gravano sulle famiglie e sugli operatori economici attraverso i costi, tra i più alti in Europa e nonostante i servizi tra i più scadenti.
Le iniziative del Governo per gli ammortizzatori sociali, i soldi alle famiglie, gli incentivi per l’auto, la possibilità per le banche di ottenere fondi patrimoniali da trasformare in strumenti di credito, il rilancio delle grandi opere pubbliche e lo stesso piano casa che si diversifica sulle diverse esigenze, dai mutui agevolati per gli alloggi popolari, all’aumento della volumetria con una legge quadro da introdurre e su cui attivare le regioni, ai piani per la realizzazione dai 5 ai 6 mila nuovi alloggi di case popolare che diventeranno circa 20.000 entro il 2011, ottengono il sostegno dell’Europa e della banca D’Italia. A tutto questo c’è anche l’impegno del Governo a non lasciare indietro nessuno.
I soldi veri, rapidi e tangibili, stanno arrivando con la revisione degli studi di settore che allenterà la pressione del fisco sulle piccole imprese già in difficoltà e soprattutto, annunciato dalla stessa Marcegaglia, con la costituzione di un fondo garanzia di 1,3 miliardi per i piccoli finanziamenti alle imprese, sul modello dei consorzi fidi, che potrà sviluppare credito per circa 70 miliardi di euro.
Tutte le iniziative hanno la logica necessità di tempi di avvio, ed è da mettere in conto anche l’impatto con gli altri attori dello stesso processo. Il piano casa, ad esempio, è ancora all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri, necessita la sua integrazione con il testo unico per l’edilizia e l’approfondimento sulle competenze che il governo intende affrontare in uno specifico incontro con le regioni. Anche le polemiche, specie se pretestuose, spesso non agevolano una partenza veloce.
Sono tutte situazioni che ben si conoscono quelle che frenano le attività dell’esecutivo soprattutto nei casi di urgenza. La decretazione spesso si scontra con le esigenze costituzionali e motiva polemiche. La rapidità si incaglia nei regolamenti parlamentari, si blocca con la visibilità dell’opposizione, confligge con i due rami del parlamento che fanno lo stesso lavoro.
La velocità della globalizzazione, in Italia, finisce così col scontrarsi con le lungaggini parlamentari e con l’inadeguatezza nei tempi della conversione in legge dei provvedimenti in esame.
I soldi sono solo sulla carta e non sono veri quando, come alcuni sostengono, si formano su ipotesi di distribuzione a spese degli altri, senza averli incassati e senza valutarne l’impatto, anche in termini di fiducia, con coloro che dovrebbero metterli a disposizione. Di soldi non veri si è sentito parlare a cataste in questa settimana, da quelli per garantire il salario per tutti, agli altri per gravare sui redditi più alti ed offrire un’elemosina (circa 5 euro al mese) ai meno fortunati.
Il sistema fiscale italiano, progressivo, trova la quasi totalità dei cittadini entro fasce di reddito, che vanno dalle più basse alle medio-alte, con aliquote già molto elevate e spesso non sostenibili. E’ quasi insignificante, rispetto alla totalità dei contribuenti, il numero di coloro che, invece, godono di alte fasce di reddito e che hanno aliquote di prelievo fiscale già maggiorate, quasi al limite della convenienza economica per programmi di crescita e di investimenti.
Con le sole ipotesi, si sa, è possibile far volare anche gli elefanti, soprattutto quando sulla responsabilità prevale tanta insana demagogia e tanta insensibilità per le sorti del Paese. E’ necessario, invece, uscire presto e bene dall’attuale crisi globale dei mercati e si ha bisogno della fiducia e dell’impegno degli italiani.
Quando la Presidente degli Industriali, Emma Marcegaglia, ha parlato di soldi veri si è riferita alle disponibilità immediate dei finanziamenti a favore delle imprese, e dal suo punto di vista ha ragione. La piccola e media industria soffre di crisi di liquidità. Il denaro è fermo, non gira. Il fatturato si riduce e con il calo della domanda si riducono i margini. I capitali delle imprese sono impiegati sulle scorte che non vengono smaltite. Non si riesce a far fronte alle spese correnti ed agli impegni finanziari programmati (mutui, leasing, investimenti). La spinta diretta alle banche di finanziare le imprese, anche con gli strumenti messi a disposizione con i Tremonti-Bond, procede con molta lentezza. C’è preoccupazione ed attesa. Il sistema bancario non riesce ancora a quantificare le perdite dei portafogli delle singole aziende di credito. Anche gli assetti manageriali delle banche mostrano impreparazione e inadeguatezza, soprattutto in relazione ai lauti compensi percepiti che gravano sulle famiglie e sugli operatori economici attraverso i costi, tra i più alti in Europa e nonostante i servizi tra i più scadenti.
Le iniziative del Governo per gli ammortizzatori sociali, i soldi alle famiglie, gli incentivi per l’auto, la possibilità per le banche di ottenere fondi patrimoniali da trasformare in strumenti di credito, il rilancio delle grandi opere pubbliche e lo stesso piano casa che si diversifica sulle diverse esigenze, dai mutui agevolati per gli alloggi popolari, all’aumento della volumetria con una legge quadro da introdurre e su cui attivare le regioni, ai piani per la realizzazione dai 5 ai 6 mila nuovi alloggi di case popolare che diventeranno circa 20.000 entro il 2011, ottengono il sostegno dell’Europa e della banca D’Italia. A tutto questo c’è anche l’impegno del Governo a non lasciare indietro nessuno.
I soldi veri, rapidi e tangibili, stanno arrivando con la revisione degli studi di settore che allenterà la pressione del fisco sulle piccole imprese già in difficoltà e soprattutto, annunciato dalla stessa Marcegaglia, con la costituzione di un fondo garanzia di 1,3 miliardi per i piccoli finanziamenti alle imprese, sul modello dei consorzi fidi, che potrà sviluppare credito per circa 70 miliardi di euro.
Tutte le iniziative hanno la logica necessità di tempi di avvio, ed è da mettere in conto anche l’impatto con gli altri attori dello stesso processo. Il piano casa, ad esempio, è ancora all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri, necessita la sua integrazione con il testo unico per l’edilizia e l’approfondimento sulle competenze che il governo intende affrontare in uno specifico incontro con le regioni. Anche le polemiche, specie se pretestuose, spesso non agevolano una partenza veloce.
Sono tutte situazioni che ben si conoscono quelle che frenano le attività dell’esecutivo soprattutto nei casi di urgenza. La decretazione spesso si scontra con le esigenze costituzionali e motiva polemiche. La rapidità si incaglia nei regolamenti parlamentari, si blocca con la visibilità dell’opposizione, confligge con i due rami del parlamento che fanno lo stesso lavoro.
La velocità della globalizzazione, in Italia, finisce così col scontrarsi con le lungaggini parlamentari e con l’inadeguatezza nei tempi della conversione in legge dei provvedimenti in esame.
Franceschini apre la porta al piano casa (per farlo uscire)
Inserisci uno o più indirizzi separati da virgole. 23 Marzo 2009 Oggi i giornali sostengono che il leader del Pd, Dario Franceschini, sarebbe intenzionato a "non chiudere la porta" davanti alla proposta del governo Berlusconi del "piano casa". Detta così sarebbe di certo una buona notizia.
A ben vedere però questa apertura di porta riesce difficile rintracciarla nell'eloquio del leader. Dice infatti Franceschini: "si tratta di norme che rischiano di deturpare i centri storici e il patrimonio culturale". E poi ancora: "Bisogna mantenere i vincoli delle sovrintendenze, anche se in ogni caso l'aumento della cubatura non va affatto bene". Ma non è finita, in un'altra dichiarazione Franceschini ha chiarito: "Siamo pronti a discutere, ma non il piano casa, perchè se è quello annunciato da Berlusconi sarebbe un disastro".
Ora è vero che Franceschini ci ha abituati a dichiarazioni rodomontesche che mal si adattano alla sua simpatica aria da teletubby, ma anche a voler essere ottimisti le sue parole non suonano come il prologo ad un dialogo spassionato sulla questione casa.
Anzi, Franceschini sembra piuttosto interessato a coagulare intorno a sè i malumori dei governatori regionali che vedono nel provvedimento del governo una lesione alla loro autorità in materia edilizia oltre al residuo catastrofismo ambientalista che ancora alligna tra le linee del Pd.
Difficile tenere assieme questa miscela burocratico-interdittoria e nello stesso tempo "aprire la porta al piano casa". La porta sarà pure stata aperta, ma la casa di Franceschini sembra già troppo affollata di no perche ci sia spazio anche solo per qualche forse.
A ben vedere però questa apertura di porta riesce difficile rintracciarla nell'eloquio del leader. Dice infatti Franceschini: "si tratta di norme che rischiano di deturpare i centri storici e il patrimonio culturale". E poi ancora: "Bisogna mantenere i vincoli delle sovrintendenze, anche se in ogni caso l'aumento della cubatura non va affatto bene". Ma non è finita, in un'altra dichiarazione Franceschini ha chiarito: "Siamo pronti a discutere, ma non il piano casa, perchè se è quello annunciato da Berlusconi sarebbe un disastro".
Ora è vero che Franceschini ci ha abituati a dichiarazioni rodomontesche che mal si adattano alla sua simpatica aria da teletubby, ma anche a voler essere ottimisti le sue parole non suonano come il prologo ad un dialogo spassionato sulla questione casa.
Anzi, Franceschini sembra piuttosto interessato a coagulare intorno a sè i malumori dei governatori regionali che vedono nel provvedimento del governo una lesione alla loro autorità in materia edilizia oltre al residuo catastrofismo ambientalista che ancora alligna tra le linee del Pd.
Difficile tenere assieme questa miscela burocratico-interdittoria e nello stesso tempo "aprire la porta al piano casa". La porta sarà pure stata aperta, ma la casa di Franceschini sembra già troppo affollata di no perche ci sia spazio anche solo per qualche forse.
In tempi di crisi l'azione del fisco aumenta
di Giovambattista
In tempi di crisi l’azione del Fisco aumenta necessariamente la propria efficacia, indirizzandosi verso quei settori dove sussiste una particolare propensione all’evasione. In tale direzione va la strategia recentemente adottata per i cosiddetti “grandi contribuenti”.
In proposito, il comma 13 dell’articolo 27 del decreto-legge 29 novembre 2008 n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, ha infatti previsto che, a decorrere dal 1 gennaio 2009, per i contribuenti con volume d'affari, ricavi o compensi non inferiore a cento milioni di euro, le attribuzioni ed i poteri ispettivi e di accertamento sono demandati a strutture specializzate presso le Direzioni Regionali dell’Agenzia delle Entrate.
A tali Uffici sarà quindi demandata una vigilanza costante su gruppi societari e multinazionali di particolare rilevanza economica, i quali, in sostanza, saranno controllati ogni anno, con finalità chiaramente dissuasive dell’evasione e soprattutto dell’elusione fiscale.
Questo tipo di controlli sarà avviato quest’anno per i soggetti con fatturato superiore a 300 milioni di Euro e sarà poi esteso entro il 2011 a tutti i soggetti con fatturato superiore ai 100 milioni di Euro. Sul fronte invece del controllo sulle persone fisiche il principale strumento di cui si avvarrà il Fisco sarà quello dell’accertamento sintetico e del redditometro. Il famoso redditometro, in fondo, consiste semplicemente in un meccanismo che abbina automaticamente al possesso di determinati beni e servizi di lusso una determinata capacità di spesa.
In pratica, se un contribuente spende 100 e dichiara un reddito pari a 10, dovrà spiegare dove ha trovato gli altri 90 che non ha dichiarato. Come si può intuire, niente di trascendentale. Ma le cose semplici, di solito, sono le più efficaci.
Gli indici di ricchezza, come spiegato anche nella recente Circolare n.1/2008 della Guardia di Finanza, potranno essere per esempio i seguenti:
- pagamento di consistenti rate di mutuo;
- pagamento di canoni per l’affitto di posti barca;
- sostenimento di spese per ristrutturazione di immobili;
- pagamento di quote di iscrizione in circoli esclusivi;
- assidua frequentazione di case da gioco;
- frequenti viaggi e crociere;
- acquisto di beni di particolare valore (quadri, gioielli, reperti di interesse storico etc.).
In tale contesto si sono inoltre cominciate a porre le basi di un’importante collaborazione tra Comuni e Fisco, chiamando gli enti locali, cioè i soggetti più vicini al territorio e quindi più in grado di rilevare agevolmente i “fattori” di ricchezza, a comunicare all’Agenzia delle Entrate situazioni rilevanti per la determinazione sintetica del reddito.
L’impegno richiesto ai Comuni, del resto, non sarà a titolo gratuito, essendo previsto che ad essi spetterà il 30 per cento degli importi riscossi a titolo definitivo, grazie appunto alla loro collaborazione. Anche da qui passa il federalismo fiscale.
Infine, le indagini finanziarie. Con tale ulteriore strumento il Fisco potrà ricostruire il complesso dei movimenti di denaro, titoli e valori riconducibili ai contribuenti controllati. I flussi finanziari, del resto, sono oggi acquisibili da parte di tutti gli intermediari e non solo, come invece in passato, dalle banche e Poste. A questa forte azione di contrasto segue però, nella fase successiva (quella cioè in cui il contribuente “evasore” deve pagare quanto accertato), un atteggiamento, potremmo dire, più “morbido”
Con la manovra estiva (L. 133/2008) si è ormai infatti consolidata la linea di agevolare il contribuente che, a seguito dei controlli dell’Amministrazione Finanziaria, decida di pagare subito le imposte dovute.
Oltre infatti ai consueti strumenti dell’accertamento con adesione e della conciliazione, laddove il contribuente presti acquiescenza già ai rilievi formulati in sede di verifica fiscale, le sanzioni irrogabili vengono ridotte ad un ottavo del minimo; egli inoltre potrà ottenere la rateazione del pagamento senza prestazione di garanzie fideiussorie e gli spetterà anche un’attenuante, ai fini penali, nell’eventuale, connesso, procedimento penale.
Un po’ secondo la tecnica del bastone e della carota, però, nel caso in cui il contribuente non intenda pagare con tali agevolazioni e chiudere quindi definitivamente il contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria, il Fisco potrà ricorrere a vari strumenti cautelari, come la confisca dei beni per equivalente (in caso di reati) e potrà chiedere al Presidente della competente Commissione Tributaria Provinciale l’autorizzazione all’iscrizione di ipoteca o al sequestro (anche dell’azienda), anche semplicemente in base ad un processo verbale di constatazione, un atto cioè che, di per sé, non costituisce ancora pretesa tributaria.
Insomma, se è vero che l’evasione fiscale spesso dipende dalla consapevolezza della probabilità dell’impunità, forse, oggi, questa consapevolezza, vista tale, necessaria, propensione all’efficacia, dovrebbe perdere alcune delle sue certezze, anche soltanto come cinico calcolo di vantaggi e svantaggi.
Perché, se è vero che molti evadono perché ritengono che sia il solo modo per sopravvivere economicamente, a parte il fatto che ciò rappresenta una violazione di legge, un illecito amministrativo e a volte penale e una sleale concorrenza nei confronti di chi invece ottempera al dovuto pagamento di imposta, comunque è bene anche sapere che, una volta “beccati”, tra maggiori imposte, sanzioni ed interessi si rischia davvero il fallimento. E non è più come in passato, quando bastava fare ricorso, dilazionando i pagamenti nel tempo e magari sperando in un futuro condono. Oggi il conto, come visto, viene chiesto subito, secondo la logica prima paghi e poi si vedrà. E se non paghi, come detto, scattano pignoramenti, ipoteche e sequestri.
Se, del resto, tutti sono d’accordo con la campagna di Brunetta per un’Amministrazione Pubblica più efficiente (e come non potrebbe essere altrimenti), non si può dimenticare che, dato il suo specifico campo di azione, il solo modo per l’Amministrazione Finanziaria di essere efficiente è questo.
A prescindere quindi da se e quanto sia giusto o meno, un imprenditore (sia l’onesto che il “furbo”) dovrebbe almeno essere il più concreto e razionale possibile e ragionare in termini di rischi e benefici. Forse potrebbe allora giungere alla conclusione che oggi il gioco non vale più la candela. E’ chiaro del resto che la prima e principale funzione di tutti gli strumenti cautelari, architettati per recuperare le imposte evase, è di tipo psicologico.
La lotta all’evasione, infatti, si può vincere solo se cambia la mentalità dei contribuenti (e in questo, certo, avrà un ruolo fondamentale anche il vedere finalmente che lo Stato, in cambio di tali imposte, eroga servizi degni di tale nome). Se poi questo avvenga per ragioni di puro calcolo, o per motivi di etica e rispetto delle regole, dipenderà da ciascun contribuente; ma almeno il risultato finale non cambierà.
In tempi di crisi l’azione del Fisco aumenta necessariamente la propria efficacia, indirizzandosi verso quei settori dove sussiste una particolare propensione all’evasione. In tale direzione va la strategia recentemente adottata per i cosiddetti “grandi contribuenti”.
In proposito, il comma 13 dell’articolo 27 del decreto-legge 29 novembre 2008 n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, ha infatti previsto che, a decorrere dal 1 gennaio 2009, per i contribuenti con volume d'affari, ricavi o compensi non inferiore a cento milioni di euro, le attribuzioni ed i poteri ispettivi e di accertamento sono demandati a strutture specializzate presso le Direzioni Regionali dell’Agenzia delle Entrate.
A tali Uffici sarà quindi demandata una vigilanza costante su gruppi societari e multinazionali di particolare rilevanza economica, i quali, in sostanza, saranno controllati ogni anno, con finalità chiaramente dissuasive dell’evasione e soprattutto dell’elusione fiscale.
Questo tipo di controlli sarà avviato quest’anno per i soggetti con fatturato superiore a 300 milioni di Euro e sarà poi esteso entro il 2011 a tutti i soggetti con fatturato superiore ai 100 milioni di Euro. Sul fronte invece del controllo sulle persone fisiche il principale strumento di cui si avvarrà il Fisco sarà quello dell’accertamento sintetico e del redditometro. Il famoso redditometro, in fondo, consiste semplicemente in un meccanismo che abbina automaticamente al possesso di determinati beni e servizi di lusso una determinata capacità di spesa.
In pratica, se un contribuente spende 100 e dichiara un reddito pari a 10, dovrà spiegare dove ha trovato gli altri 90 che non ha dichiarato. Come si può intuire, niente di trascendentale. Ma le cose semplici, di solito, sono le più efficaci.
Gli indici di ricchezza, come spiegato anche nella recente Circolare n.1/2008 della Guardia di Finanza, potranno essere per esempio i seguenti:
- pagamento di consistenti rate di mutuo;
- pagamento di canoni per l’affitto di posti barca;
- sostenimento di spese per ristrutturazione di immobili;
- pagamento di quote di iscrizione in circoli esclusivi;
- assidua frequentazione di case da gioco;
- frequenti viaggi e crociere;
- acquisto di beni di particolare valore (quadri, gioielli, reperti di interesse storico etc.).
In tale contesto si sono inoltre cominciate a porre le basi di un’importante collaborazione tra Comuni e Fisco, chiamando gli enti locali, cioè i soggetti più vicini al territorio e quindi più in grado di rilevare agevolmente i “fattori” di ricchezza, a comunicare all’Agenzia delle Entrate situazioni rilevanti per la determinazione sintetica del reddito.
L’impegno richiesto ai Comuni, del resto, non sarà a titolo gratuito, essendo previsto che ad essi spetterà il 30 per cento degli importi riscossi a titolo definitivo, grazie appunto alla loro collaborazione. Anche da qui passa il federalismo fiscale.
Infine, le indagini finanziarie. Con tale ulteriore strumento il Fisco potrà ricostruire il complesso dei movimenti di denaro, titoli e valori riconducibili ai contribuenti controllati. I flussi finanziari, del resto, sono oggi acquisibili da parte di tutti gli intermediari e non solo, come invece in passato, dalle banche e Poste. A questa forte azione di contrasto segue però, nella fase successiva (quella cioè in cui il contribuente “evasore” deve pagare quanto accertato), un atteggiamento, potremmo dire, più “morbido”
Con la manovra estiva (L. 133/2008) si è ormai infatti consolidata la linea di agevolare il contribuente che, a seguito dei controlli dell’Amministrazione Finanziaria, decida di pagare subito le imposte dovute.
Oltre infatti ai consueti strumenti dell’accertamento con adesione e della conciliazione, laddove il contribuente presti acquiescenza già ai rilievi formulati in sede di verifica fiscale, le sanzioni irrogabili vengono ridotte ad un ottavo del minimo; egli inoltre potrà ottenere la rateazione del pagamento senza prestazione di garanzie fideiussorie e gli spetterà anche un’attenuante, ai fini penali, nell’eventuale, connesso, procedimento penale.
Un po’ secondo la tecnica del bastone e della carota, però, nel caso in cui il contribuente non intenda pagare con tali agevolazioni e chiudere quindi definitivamente il contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria, il Fisco potrà ricorrere a vari strumenti cautelari, come la confisca dei beni per equivalente (in caso di reati) e potrà chiedere al Presidente della competente Commissione Tributaria Provinciale l’autorizzazione all’iscrizione di ipoteca o al sequestro (anche dell’azienda), anche semplicemente in base ad un processo verbale di constatazione, un atto cioè che, di per sé, non costituisce ancora pretesa tributaria.
Insomma, se è vero che l’evasione fiscale spesso dipende dalla consapevolezza della probabilità dell’impunità, forse, oggi, questa consapevolezza, vista tale, necessaria, propensione all’efficacia, dovrebbe perdere alcune delle sue certezze, anche soltanto come cinico calcolo di vantaggi e svantaggi.
Perché, se è vero che molti evadono perché ritengono che sia il solo modo per sopravvivere economicamente, a parte il fatto che ciò rappresenta una violazione di legge, un illecito amministrativo e a volte penale e una sleale concorrenza nei confronti di chi invece ottempera al dovuto pagamento di imposta, comunque è bene anche sapere che, una volta “beccati”, tra maggiori imposte, sanzioni ed interessi si rischia davvero il fallimento. E non è più come in passato, quando bastava fare ricorso, dilazionando i pagamenti nel tempo e magari sperando in un futuro condono. Oggi il conto, come visto, viene chiesto subito, secondo la logica prima paghi e poi si vedrà. E se non paghi, come detto, scattano pignoramenti, ipoteche e sequestri.
Se, del resto, tutti sono d’accordo con la campagna di Brunetta per un’Amministrazione Pubblica più efficiente (e come non potrebbe essere altrimenti), non si può dimenticare che, dato il suo specifico campo di azione, il solo modo per l’Amministrazione Finanziaria di essere efficiente è questo.
A prescindere quindi da se e quanto sia giusto o meno, un imprenditore (sia l’onesto che il “furbo”) dovrebbe almeno essere il più concreto e razionale possibile e ragionare in termini di rischi e benefici. Forse potrebbe allora giungere alla conclusione che oggi il gioco non vale più la candela. E’ chiaro del resto che la prima e principale funzione di tutti gli strumenti cautelari, architettati per recuperare le imposte evase, è di tipo psicologico.
La lotta all’evasione, infatti, si può vincere solo se cambia la mentalità dei contribuenti (e in questo, certo, avrà un ruolo fondamentale anche il vedere finalmente che lo Stato, in cambio di tali imposte, eroga servizi degni di tale nome). Se poi questo avvenga per ragioni di puro calcolo, o per motivi di etica e rispetto delle regole, dipenderà da ciascun contribuente; ma almeno il risultato finale non cambierà.
domenica 22 marzo 2009
Prendete al volo le occasioni
Thoreau, pensatore del rinascimento americano, scrisse nel suo diario: «Nulla deve essere
posposto. Prendete al volo le occasioni. Ora o mai più. Dovete vivere nel presente, lanciatevi
in ogni onda, trovate la vostra eternità in ogni momento.» Non dovremmo rinviare ma cogliere l'attimo,
vivendo con tutto il nostro essere nel presente, in questo modo ogni momento si trasformerà in eternità.
Gandhi insegnò alla gente a vivere con un coraggio da leoni, spiegando che non si può
lasciare la responsabilità delle cose agli altri, ma che ci si deve alzare da soli e lottare per la
giustizia. In definitiva il solo modo per avanzare è avere fiducia in se stessi e sviluppare uno
spirito indipendente. Questo è il solo cammino che ci condurrà alla vittoria.
posposto. Prendete al volo le occasioni. Ora o mai più. Dovete vivere nel presente, lanciatevi
in ogni onda, trovate la vostra eternità in ogni momento.» Non dovremmo rinviare ma cogliere l'attimo,
vivendo con tutto il nostro essere nel presente, in questo modo ogni momento si trasformerà in eternità.
Gandhi insegnò alla gente a vivere con un coraggio da leoni, spiegando che non si può
lasciare la responsabilità delle cose agli altri, ma che ci si deve alzare da soli e lottare per la
giustizia. In definitiva il solo modo per avanzare è avere fiducia in se stessi e sviluppare uno
spirito indipendente. Questo è il solo cammino che ci condurrà alla vittoria.
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