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martedì 24 marzo 2009

Sulla crisi ognuno dà i numeri ma nessuno li conosce davvero

di Fabrizio Goria

27 Febbraio 2009

Passano i giorni e la crisi finanziaria peggiora sempre più. In America si combatte contro gli zombie, come sono state definite le banche a rischio default, mentre nel Regno Unito si fanno i conti con le trimestrali da brivido di Royal Bank of Scotland. Molti hanno cercato di quantificare l’esposizione che le banche, le società finanziarie e le imprese hanno nei confronti dei derivati, senza trovare una risposta certa.

L’ultimo in ordine di tempo è il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, il quale, a margine dell’audizione post G8 a Palazzo Madama, ha espresso la sua opinione sui numeri della crisi. «In questo momento il volume nazionale dei derivati, secondo i dati del Congresso degli Stati Uniti, ma anche secondo i dati della Banca dei Regolamenti, è 12,5 volte il Pil del mondo» ha affermato Tremonti, facendo riferimento al valore degli asset che compongono la base del contratto che costituisce lo strumento derivato. Il riferimento ai capri espiatori della peggior fase economica dalla Grande Depressione è chiaro: credit default swaps, asset backed securities e collateralized debt obligations sono diventati tristemente noti a partire dal fallimento di New Century Financial, nell’maggio 2007.

L’intervento del ministro ha suscitato l’interesse di molti. In effetti, pochi hanno cercato di stimare l’entità della crisi. Uno di questi è l’economista turco (con un passato in Bocconi) Nouriel Roubini, docente alla New York University. Il fondatore dell’agenzia di consulenza RGE Monitor ha fornito una stima delle perdite complessive degli Stati Uniti dopo lo scoppio della bolla immobiliare, di cui era stato preveggente nel 2006 contro i pareri di molti accademici. Una valutazione di merito, nell’ordine di circa 3,6 trilioni di dollari, considerando l’esposizione finora emersa degli istituti di credito ed ipotizzando i restanti toxic asset sulla base della situazione patrimoniale ante agosto 2007.

Sul fronte istituzionale, Bank of America ha calcolato quanto le borse mondiali hanno perso in termini di capitalizzazione dal fallimento di Lehman Brothers. La cifra diramata il 10 febbraio è spaventosa: 7,7 trilioni di dollari, circa il 14,7% dei valori globali. Le settimane nere delle piazze azionarie hanno quindi bruciato poco più di un decimo del Pil mondiale. Anche l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha stimato le perdite complessive delle borse, rimarcando quello del gennaio appena trascorso, 5,2 trilioni. Questi sono certo numeri impressionanti, ma torniamo a quanto affermato da Tremonti.

Sfogliando il World Economic Outlook dell’IMF (o il World Factbook della CIA), emerge con facilità il dato del prodotto interno lordo (a parità di potere d’acquisto) del pianeta: poco più di 70 trilioni di dollari. Ora, se si moltiplica per 12,5 volte il Pil mondiale, dovremmo avere il nozionale del mercato dei derivati, ovvero 875 trilioni di dollari, centesimo più centesimo meno. Questo significa che, se nel 2012 non ci piomba addosso il famoso asteroide atzeco, ci penseranno i derivati a distruggerci. Il vero problema, però, sta in ciò che si dice e nella sua forma.

Affermare che l’economia mondiale poggia su un terreno minato può essere veritiero, lo abbiamo visto, ma bisogna star attenti con le cifre. Prima di tutto, si deve comprendere a quale gioco si sta giocando: nella valutazione del mercato derivatives cosa entra e cosa viene escluso? Sono stati calcolati anche i mercati OTC (Over-The-Counter)? In che modo è stato valutato il leverage?

Che senso ha, nell’ottica del Congresso, fornire dati senza legittimarne a pieno la provenienza e la composizione? Specie in un momento come questo, in cui le borse percepiscono (per lo più negativamente) ogni sussurro dei governanti. L’esempio delle parole illuminanti di Ben Bernanke sulla fine della congiuntura negativa è emblematico: il rimbalzo di Wall Street è giusto durato il tempo di leggere sui quotidiani delle perdite di RBS e del cambio al vertice di UBS.

Freneticamente si ricerca la fiducia perduta, ma per ritrovarla c’è bisogno di credibilità, che si ottiene solo con numeri esatti e misure corrette. E ad oggi, i mercati ricordano che non vi sono né gli uni né le altre.

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